Il relativismo che toglie
i peccati dal mondo
di Bruno Gravagnuolo
«Sono un liberale leninista, liberale nei contenuti, leninista nei metodi a difesa del liberalismo...». Gioca sul paradosso Giulio Giorello, filosofo della scienza, già allievo del dialettico Ludovico Geymonat, e oggi alieno da ogni «dialettismo della natura», a parte quello dell’argomentare per teorie e paradigmi conflittuali.Pacifista, conflittualista, e persino talvolta simpatizzante no-global, ha scritto un pamphlet di sapere volteriano: Di nessuna Chiesa. La libertà del laico (Raffaello Cortina, pp.79, euro 7,50) . Corredato di un index librorum prohibitorum, «Piccola biblioteca laica», l’ha chiamata, con testi che includono i suoi autori preferiti. Tutti rigorosamente laici. da Bobbio, a Feyerabend, a Hume, a Jefferson, a Darwin (che laicissimo non era ma fa lo stesso quanto a esiti...) a Milton, Voltaire va da sé, e Popper. Sì Popper, che è l’alfa e l’omega per Giorello, il Popper epistemologo, critico dello storicismo, riletto in chiave anarco-liberale dallo studioso milanese. La tesi del libretto? Eccola: no a tutte le Chiese, fossero anche laiche e materialiste. Perché l’assoluto, ogni assoluto, è sempre materia del contendere. Non può venir imprigionato in un’appartenenza o in una fede. E l’unico «dover essere», ammesso che vi sia, è quello della libertà. Libertà delle forme di vita, da scegliere senza offesa per gli altri. E libertà del conoscere. Che poi per dirla con David Hume, è la radice dell’umana simpatia, da cui viene fuori la società. Conversazione contrastata quella con Giorello, apologeta antipapista del «relativismo», refrattario a ogni pathos della certezza e delle regole, sia pur nelle versioni kantiane alla Habermas. Ma stimolante. Se non altro perché i suoi argomenti sono una buona medicina contro fanatici di vecchio e nuovo conio. Sentiamo.
Professor Giorello, Marcello Pera sì è scagliato di nuovo contro la cedevolezza all’Islam e ha riproposto la centralità del nesso politica-religione. La sua reazione?
«Pera s’è creato un feticcio - il relativismo - privo d’ogni consistenza. E non fa che ribadire noiosamente il tormentone. Proprio come la Fallaci, ossessionata dall’agnosticismo occidentale. La cosa buffa è che in queste posizioni c’è un elogio indiretto dell’afflato comunitario tipico della religione nemica, l’Islam. Ma ne abbiamo abbastanza di fedi che generano omicidi e terrorismo. Ci è nota l’abitudine cattolica pregressa di assassinare monarchi non graditi, come Enrico III e Enrico IV, con altre piacevolezze come roghi e torture al tempo delle guerre di religione. Quest’anima religiosa da salvare l’abbiamo persa per fortuna! Il che non significa colpevolizzire l’Islam o il Cristianesimo, entrambe tradizioni complesse, capaci di esorcizzare l’estremismo. Insomma, un conto è la difesa strenua dal fondamentalismo, altro le crociate sotto qualsiasi forma, inclusa la guerra preventiva. Né Jiahd occidentale, né porgere l’altra guancia. Cromwell diceva: ai fanatici e agli intolleranti bisogna tagliare le unghie. Anche a quelli che vogliono difendersi fanaticamente dai fanatici».
C’è un punto filosofico però: il relativismo. Lei lo difende a spada tratta. Difende con la spada qualcosa di relativo...
«Il relativismo è l’Occidente e Pera non lo capisce. Se avesse davvero approfondito Popper, avrebbe capito che il relativismo è la vera radice dell’Occidente, dei sofisti, di Socrate, degli scettici...».
Però, come sapeva Aristotele, è un serpente che mangia se stesso. Se tutto è relativo non si autoconfuta anche il dire che tutto è relativo?
«No. Come ribatteva Sesto Empirico mille e ottocento anni fa, le affermazioni scettiche sono come i purganti. Fanno effetto scacciando i veleni, e così scacciano anche se stesse. Il relativismo non è una religione o un dogma. È un atteggiamento mentale che consente ad ogni teoria di avere i suoi difensori pubblici. La miglior garanzia che ogni assoluto conservi le sue buone ragioni, come diceva Leopardi nello Zibaldone. Cosicché poi ogni posizione abbia il suo buon diritto a misurarsi. A esibire i suoi fondamenti. Ci mancherebbe altro che il relativismo divenga una fede. Ed è proprio la scienza l’attività più imparentata al relativismo. Come scriveva Brecht nel Galileo, ciò che oggi scriviamo sulla lavagna, domani lo cancelleremo»
Nondimeno un’istanza razionale e fondativa permane nella scienza. Meglio allora parlare di probabilismo, più che di relativismo, non crede?
«Mi va benissimo. Un grande matematico italiano, Bruno De Finetti, chiamava la scienza proprio così. Non mi impicco ai termini. Benché preferisca semmai “fallibilismo”, al modo di Popper e Peirce. Significa la capacità di imparare dagli errori. Attraverso la critica. E c’è un’aria di famiglia fra tutte queste cose. Uno dei progenitori è John Locke. Che diceva: “noi prendiamo le nostre decisioni non nel mezzogiorno della certezza ma nel crepuscolo della probabilità”. Non è questione di nomi. Ma evitiamo le sciocchezze, del tipo “no alla dittatura del relativismo”. Questo possono dirlo solo Pera e Ratzinger. E lo fanno per costruire un nemico fittizio. Per colpire la laicità dello stato. La libertà di ricerca, tacciata persino di nazismo! Il diritto ad un tipo di famiglia liberamente scelto. E quello a procreare con la fecondazione assistita. Senza intromissioni dello stato».
La libertà come competizione tra teorie scientifiche esclude qualsiasi tipo di certezza forte?
«Certezza forte la vedo solo nella matematica e anche lì con grande difficoltà. Ma il punto non è quello delle basi incontrovertibili nei vari campi del sapere. La discussione riguarda le forme di vita: è morale e politica. Occorre contrastare l’imposizione delle forme di vita. Perciò vale ancora la lezione di John Stuart Mill, pensatore amato da Bobbio: la vera libertà sta nella pluralità delle forme di vita».
La sua apologia del pluralismo non ci esime dalla ricerca di qualche regola comune. Ad esempio John Rawls ci ha provato con le regole del contratto sociale in società democratiche...
«Non è il mio pensatore preferito. E trovo moralistica e ossessiva la sua insistenza sugli “svantaggiati”. Quelle posizioni sono state smantellate dal Nobel per l’economia Harsanyi. Non si capisce perché mai le posizioni degli svantaggiati debbano essere privilgiate su quelle degli altri...»
È l’universalismo democratico: la diseguaglianza è legittima se genera benefici anche per i più deboli. Altrimenti la società è ingiusta e la libertà è solo di alcuni.
«Lo trovo schematico e ossessivo. Come dice Harsany, se ho una scorta limitata di farmaci, perché devo darla a chi è più svantaggiato?»
Va data a chi ne ha più bisogno, e poi per Rawls i bisogni di base vanno garantiti a tutti.
«D’accordo, ma c’è un insistenza troppo fiscale sulla redistribuzione. Quella teoria funziona solo come riedizione della concenzione solidaristica in chiave utilitarista. Così come fu formulata dal solito Mill, e oggi da Harsany».
Insisto, il pluralismo ha bisogno di regole e valori. E anche la torre di Babele franata - esaltata da Popper come base del pluralismo - include frammenti comuni: logica, linguaggio, tensione all’intesa. Come risponde?
«L’unico fondamento comune è questo. Io aiuto te, tu aiuti me ed è conveniente collaborare per sconfiggere i nostri nemici».
Replica sbrigativa, hobbesiana e schmittiana. Non basta a sconfiggere l’offensiva degli assoluti religiosi, non le pare?
«Hobbesiana, schmittiana, non temo le etichette. E le rispondo con Feyerabend: non siamo inermi nei confronti degli assolutisti. Perché se esagerano e toccano le nostre vite e le nostre proprietà, rispondiamo con una bella azione di polizia. I fanatici vanno trattati così, come diceva Olivier Cromwell».
Lo stato come guardiano notturno. Non è il vecchio ritornello liberale di Locke, oltretutto censitario a suo tempo?
«Confesso, sono un vecchio liberale. E il liberalismo non è più censitario. E poi ormai cultura, scienza e informazione sono la vera ricchezza».
Già, e andrebbero resi comuni e accessibili come l’acqua, e con regole, o no?
«Certo. Lo avevano capito i babilonesi che scoprirono l’utilità di mettere in comune l’acqua, senza sprecarla o darla a chiunque. È l’interesse comune il cemento delle regole».
Gli interessi comuni sono oggi mondiali e regolarli contro le ingiustizie non è una passeggiata, tra una guerra e l’altra...
«Sì, sono mondiali e perciò bisogna investire massicciamente in ricerca e scienza, senza lasciarsi fuorviare da idee, testi e dogmi di secoli fa. E mi riferisco alle deplorevoli politiche del Vaticano, che hanno incoraggiato l’incremento delle nascite, vituperandone controllo. Senza sconti beninteso all’autoritarismo cinese in materia...».
Ho riconosciuto nell'articolo lo scoppiettante prof. Giorello che ho avuto il piacere di ascoltare il 23 marzo 2007 a Palazzo Reale a Milano, in occasione di un convegno sull'evoluzione del pensiero liberale: cibo per la mente e sostanza per l'azione politica. Purtroppo la politica di oggi fornisce unicamente cibo per la pancia. E in questo sinistra e destra sono identiche. La politica muore quando non ci sono idee.