Quando software vuol dire sapere
di Nicola Zingaretti
In questi giorni la Commissione giuridica del Parlamento Europeo sta votando la direttiva relativa alla brevettabilità delle invenzioni attuate per mezzo di elaboratori elettronici. Essa si pone il legittimo obiettivo di armonizzare le legislazioni nazionali, per sostituire ad esse un comune ordinamento normativo condiviso.
Tendenzialmente, quando ci si trova davanti a un testo o una direttiva europea, la nostra cultura politica ci porta ad avere una discussione nella quale i termini del confronto si limitano ad esprimersi a favore o contro la direttiva.
Le relazioni tra Consiglio, Commissione e Parlamento Europeo non sono fondate su questo schema o principio politico. C’è il Consiglio, cioè i governi nazionali con gli orientamenti delle loro diverse maggioranze; la Commissione, nella quale sono presenti differenti sensibilità politiche e, poi, il Parlamento anch’esso con le sue dinamiche tra gruppi politici. Su questo equilibrio complesso, molto complesso, che diventa ancora più complesso se si pensa al diritto di veto, si fonda l’iniziativa dell’Europa.
Si tratta di un’attività a volte frenetica, ma utilissima, di produzione di direttive e atti giuridici che ha uno scopo, una missione: quella di armonizzare le legislazioni e le attività nei 25 Paesi membri. Se non c’è questa attività, non c’è l’Europa. Quando c'è un deficit di questo slancio a seguito di egoismi nazionali, pensiamo alla politica estera, l’Europa è debole.
Per il Parlamento è dunque sbagliato limitarsi, con un atteggiamento burocratico, ad accettare in maniera passiva tutte le proposte della Commissione o del Consiglio, ma credo sia infantile al contempo illudersi che l’unica arma nelle nostre mani sia quella di opporvisi.
Il compito, molto più che in qualsiasi altra assemblea elettiva, è quello di partecipare alla definizione di indirizzi e scelte, e occorre quindi un grande sforzo creativo e intellettuale affinché ci sia una “buona Europa”; direi una Europa utile agli interessi generali degli europei e del mondo.
Ma veniamo alla direttiva in questione. La Convenzione di Monaco del 1973 esclude esplicitamente il software dal campo di applicazione del brevetto. In sostanza, si riconosce che il software non è un campo della tecnologia ma della scienza. Oggi i programmi per calcolatore (software) sono legalmente protetti dal diritto d’autore (copyright): il programmatore cioè controlla la pubblicazione, l’esecuzione e la copia di un programma che ha scritto, allo stesso modo in cui un compositore controlla una sua sinfonia o uno scrittore un suo romanzo.
Ciò che viene protetto è, dunque, lo specifico programma scritto da un programmatore ma non le idee che stanno alla base del programma stesso. È così da sempre, o meglio, come ci ha ricordato alcune settimane fa Guido Rossi, da quando la Repubblica di Venezia concesse il primo copyright allo stampatore delle «Storie» di Plinio il Vecchio. In seguito, il privilegio di Venezia si estenderà agli autori. Alla base vi è il principio che dove esiste un valore, allora deve esserci anche un diritto. E, così, in epoca più tarda nasce il brevetto a tutela delle invenzioni, soprattutto quelle ad uso industriale.
È stato scritto, forse forzando un po’ la mano, che «compositori e romanzieri hanno facoltà di impedire che vengano effettuate copie illegali dei loro lavori, ma nessuno scrittore può brevettare, per esempio, l’idea di narrare le vicende di una coppia di fidanzati lombardi del ‘600».
Il copyright tutela l’attuazione di una idea nella forma di un prodotto finito, mentre il brevetto l’idea stessa.
Negli USA, negli anni ‘80, si è sviluppata una riflessione sull’opportunità di brevettare il software. Il dibattito ha portato, negli anni ‘90, ad una adozione piena del sistema dei brevetti. Non voglio soffermarmi sui risultati controversi di questa scelta, ma limitarmi a segnalare che questo fatto ha indubbiamente costituito un elemento di concorrenza tra le imprese Usa e non.
Ora, e qui nasce e trova radici il problema, è noto che da venti anni a questa parte, i rapidissimi sviluppi dell’informatica hanno interessato tutti i settori dell’industria e dei servizi. Al di là degli usi professionali, non esistono più oggetti di uso corrente che non prevedano la presenza di software integrato: autovetture, telefonia mobile, televisioni, videoregistratori, lavatrici, comandi degli ascensori e così via. Le università, i laboratori la ricerca nel mondo sono proiettati sempre più in questo orizzonte.
I costi per la messa a punto e la loro produzione sono ingenti. È naturale e auspicabile, dunque, che l’industria possa brevettare i risultati dei propri investimenti al fine di ricavarne un guadagno e proteggerli dalla contraffazione e dalla concorrenza sleale.
Da tempo esiste il problema della regolazione dei processi fisici applicati all’ambito delle invenzioni, che hanno forme diverse, in particolare di tipo meccanico o pneumatico. Mettere a punto tali regolazioni, brevettabili quando esse stesse risultavano innovative nella loro realizzazione, risultava estremamente oneroso. Sostituirle con un software, dai costi di sviluppo ben più contenuti, rappresenta un enorme risparmio e ciò ha determinato la sua grande diffusione.
Ma un software, ecco il punto, è di natura diversa: si tratta di un bene immateriale. Di fatto, il software è dato dalla combinazione, all’interno di un opera originale, di uno o più algoritmi, vale a dire un insieme di formule matematiche. Ora, come ha affermato Albert Einstein, che, caso della vita, inizia la sua attività come funzionario dell’ufficio brevetti di Berna, «una formula matematica non è brevettabile». Essa rientra nell’ambito delle idee, come una storia, un insieme di parole o un accordo musicale.
Da millenni il sapere si costruisce e si diffonde copiando e migliorando, vale a dire avendo libero accesso alle idee. Il fatto che il sapere moderno, almeno in quei contesti che hanno qualche rapporto con la logica o la quantizzazione, possa più agevolmente essere espresso in forma di software non deve in alcun caso portare a rinunciare al principio del libero accesso, che è il solo a garantire la straordinaria capacità dell'umanità di creare nuovo sapere. Pensiamo ai limiti che questo sistema porterebbe alla libera iniziativa dei programmatori, che non solo dovrebbero essere in grado di sviluppare un programma da zero, ma sarebbero tenuti anche ad assicurarsi che il loro codice non violi nessuno delle decine di migliaia di brevetti software esistenti.
Quale è, dunque, la natura del problema che abbiamo davanti? Il tema è fondamentale sia a livello economico che a livello politico o filosofico: si tratta di regolamentare la diffusione del sapere e delle idee nella nostra società e il problema scaturisce dalla contraddizione fra il sistema giuridico e la tradizione ereditata, da un lato, e le esigenze di remunerazione rispetto agli investimenti, riconoscimento del diritto ai profitti derivati e di sicurezza nel fare impresa, dall’altro.
Da lungo tempo si cerca una conciliazione fra queste due contraddittorie esigenze ed è proprio tale ricerca ad essere oggetto della direttiva in esame. E permettetemi di dire che, nelle decine e decine di incontri che ho avuto in questi mesi con operatori del settore, docenti universitari e imprese, ho avuto a volte la sensazione che tutti abbiano ragione se non si riesce, fino in fondo, ad assumere la complessità del problema.
La via emendativa alla direttiva, che il Parlamento sta provando ad attuare su spinta di Michel Rocard, parte da qui: un software, formulazione di un idea, è di natura immateriale. «Le funzionalità che determina all’interno di un elaboratore elettronico sono incluse al suo interno e non sono direttamente comunicabili a cosa o persona esterna. Affinché tali funzionalità siano comunicabili ed abbiano effetto, è necessario che un componente si metta in movimento, che un segnale elettrico, radio o luminoso venga prodotto, che una informazione appaia su uno schermo o che si scateni un qualsiasi effetto fisico».
Ciò che, in modo quanto mai evidente, è brevettabile sono i sensori da una parte e tutti gli effettori dall’altra che alimentano l’elaboratore di informazioni trattabili dal software e che traggono dall’informazione prodotta infine dal software, nel suo linguaggio, un effetto fisico che costituisce la soluzione tecnica al problema tecnico che è stato posto. La distinzione da cercare separa, dunque, il mondo immateriale dal mondo materiale o piuttosto dal mondo fisico, anche se entrambi i termini sono alquanto insufficienti per riguardare l’intero settore interessato. “Materiale” evoca troppo la materia e non l’energia, mentre “fisico” richiama implicitamente una quantità tangibile.
Sono aspetti delicati, destinati ad influenzare e rimodellare i mercati europei ben oltre la ristretta, per quanto articolata, cerchia dei produttori e fruitori del settore.
In gioco, in un futuro prossimo, vi è la nostra stessa concezione della conoscenza e del sapere in Europa. Ragion per cui una sinistra moderna, capace di interpretare gli epocali mutamenti in atto, deve raccogliere la sfida e affrontare questi temi con determinazione.
"I costi per la messa a punto e la loro produzione sono ingenti. È naturale e auspicabile, dunque, che l’industria possa brevettare i risultati dei propri investimenti al fine di ricavarne un guadagno e proteggerli dalla contraffazione e dalla concorrenza sleale."
Non capisco perché l'uso del software al posto dell'hardware debba richiedere l'applicazione dei brevetto a quest'ultimo, dovrebbe invece essere un gran vantaggio già in sé poter sostituire una parte hardware, quindi facilmente smontabile, analizzabile e riproducibile, con una software, "blindata" nella sua forma binaria (basta non rilasciare il sorgente) e protetta con il copyright dalla copia.
Perché mai questo indubbio vantaggio richiederebbe in aggiunta (ingordigia?) la nefasta introduzione dei brevetti software? Non è che è solo una scusa accampata dai monopolisti del software per indurre i parlamentari creduloni a seguirli? Non si vuole che ne venga usata "l'idea"? Ma se l'innovazione sta nel software, o si tratta di qualche algoritmo matematico, ma spero proprio che nessuno si sogni di voler brevettare la matematica, o nella sequenza di operazioni che deve fare l'attuatore meccanico... insomma, l'attività normale di un programmatore nella sua stanzetta... Di importante saranno casomai i parametri, le ottimizzazioni, gli accorgimenti usati, tutti protetti dalla segretezza del codice sorgente e dal copyright. Insomma, ai miei tempi i calcolatori tascabili/programmabili HP erano molto più aprezzati dei più economici sharp o altri dal giappone perché avevano semplicemente delle routine di calcolo molto più raffinate e precise, e all'epoca non esistevano i brevetti software, e HP ha mantenuto la leadership per molto tempo.
Mi sembra che su questo tema ci siano molti imbonitori e chi decide non sappia bene che fa...
Alberto, questo articolo è importante e sono felice che tu l'abbia riportato, e mi fa piacere che esca sulla carta stampata.
Però mi piacerebbe che uscisse anche su giornali come Corriere e Repubblica, che si facesse più rumore, che si smettesse di pensare che è una mera questione "da tecnici"
Chissà se qualche giornalista è sintonizzato da queste parti e riesce a dare una mano...
Io credo di sì, so per certo che molti colleghi "altolocati" ci leggono. Credo sia però un problema politico, quindi (per loro) da trattare con le molle.