Sgombero a Gaza: le lacrime di Israele
di Furio Colombo
Se Ariel Sharon riuscirà in questa prova, la più dura della sua vita di ex militare e di leader politico, Israele e i Palestinesi saranno più vicini alla pace, forse più vicini di quanto in queste ore molti, tra quei due popoli e nel resto dell’opinione del mondo, abbiano il coraggio di sperare. Infatti, così come ci sono eventi, anche apparentemente minori che possono scatenare sequenze violente che spingono alla tragedia, allo stesso modo è possibile che lo sgombero di Gaza (che era apparso fino a ora troppo pericoloso, troppo difficile) rimuova un primo grandissimo ostacolo al percorso di pace. Il fatto è che Sharon, proprio Sharon considerato il falco dei falchi e - da militare - un comandante deciso a tutto pur di proteggere la sua parte, adesso si espone alla impopolarità.
Si espone al rischio politico, (il suo partito si è spaccato, molti alleati lo hanno abbandonato) al rischio fisico (nessuno ha dimenticato il prezzo del coraggio di Itzak Rabin), va avanti senza esitazioni nella sua decisione impossibile e inevitabile: lo sgombero dei coloni dai territori che sono o saranno parte dello Stato Palestinese. Certo, Sharon ha una controparte, Abu Mazen, che sembra sapere quanto difficile sia l’impegno assunto da Sharon. Ma la parte più dura si svolge in casa, riguarda Israele, tocca a Sharon, coinvolge la sua vita personale e il suo destino politico.
In questo momento Sharon appare come un fatto raro, praticamene senza uguali nella vita politica del mondo. È un leader che vede la strada da seguire e ostinatamente la segue perché in fondo a quella strada intravede per il suo Paese la pace, o almeno più pace. Nel farlo, riconosce un diritto ai Palestinesi e dà inizio alla possibilità che quei territori diventino lo Stato non del nemico ma del vicino.
Il caso Sharon consiste in questo: si gioca tutto il suo prestigio e il suo capitale politico accumulato a destra, per essere il leader di tutto il suo Paese. Si scontra con chi lo ha scelto ed eletto, diventa agli occhi di una parte della sua destra impopolare e odiato, ma non cede e non si spaventa. Va a cercare i suoi avversari politici per condividere con loro (li rappresenta Shimon Peres) un progetto che contiene tutto il rischio, tutto il pericolo e tutta la speranza.
Ciò che sta accadendo (e che, a quanto pare, sta accadendo senza incidenti importanti e senza pericolosi contraccolpi su un versante o sull’altro dei due delicatissimi contenitori, Israele e i Palestinesi), può sembrare a prima vista un episodio minore. C’è chi ti spiega che c’è ben altro da sgombrare, che il percorso è lungo, e che non bisogna confondere i simboli, per quanto buoni, con i fatti risolutivi di questo lunghissimo stato di tensione che può sempre sbocciare in un nuovo conflitto.
C’è chi si preoccupa di ricordarti che Sharon non è un uomo buono, e che dunque sta facendo quello che sta facendo per necessità e non per principio. C’è chi preferisce rievocare le imprese del generale, come se fosse più importante riportare su quella terra e su quei due popoli umori di guerra invece che speranze di pace.
È più serio e più utile guardare a ciò che effettivamente accade in queste ore. In Israele è la prova di un grande leader che sa essere impopolare, che osa mettersi contro la parte dura del suo elettorato. Qualcuno può fare un altro esempio, indicarci qualcuno, in qualche altro Paese democratico, dove si esiste soltanto con il favore e col voto, che possa essergli messo accanto in questa prova impossibile?
Tra i Palestinesi questo coraggio, che è di pace invece che di guerra, e dunque il contrario di ciò che i leader del mondo di solito vogliono dimostrare, ha attratto per forza attenzione. Neppure il cumulo di pregiudizi contro quel celebrato e odiato ex nemico può fare velo alla sua determinazione e al senso di ciò che sta facendo. Nel mondo la politica di Sharon in questi giorni ha un’importanza grandissima. Spezza le propagande, interrompe i luoghi comuni, mostra che è sempre possibile, anche nelle situazioni più incredibili, anche quando la controparte è la propria gente, intraprendere il compito di fare la pace.
Ricordate le tante discussioni sul terrorismo? Ci vogliono gli eserciti o ci vuole la politica? Ecco, è toccato a Sharon, considerato il falco degli eserciti, dire e mostrare come funziona la politica al posto delle armi. Sharon dà in queste ore un colpo al terrorismo più forte dell’intervento di un esercito. Sta abbattendo, anche per gli avversari, l’argomento che la lotta armata è l’unica strada.
Israele, il Paese del mondo più ferito e dilaniato dal terrorismo disumano delle bombe umane, sta negando la guerra di civiltà che piace tanto in certe retrovie italiane. Dimostra che ciò che ognuno di noi ha in comune con gli altri è il desiderio (ma anche il bisogno) di fare pace e di vivere accanto. Dimostra, ai suoi e agli altri, che questo desiderio grande e legittimo, si paga con il rispetto reciproco.
Dicono che a sinistra molti negano che tutto ciò stia accadendo o che abbia un senso o che possa essere opera di un politico come Sharon. Ma la natura, l’istinto, il Dna di chi sceglie di stare a sinistra è solidarietà e pace. Non c’è solidarietà con i Palestinesi se non c’è solidarietà con Israele. E non c’è pace senza chi ha il coraggio di farla.
Ora che Ariel Sharon, insieme a tanti israeliani, (e al prezzo di dispiacere a molti altri) si è assunto quel compito, che riverbera effetti di pace nel mondo, si può far finta di non vedere il senso di ciò che sta accadendo e il peso storico di chi lo fa accadere?
A Furio Colombo è andato in pappa il cervello definitivamente.
Larry, non capisco. Trovo quersto articolo molto lucido e pragmatico. Puoi spiegare cosa ci trovi di tanto sconcertante da scrivere che Colombo si è rincoglionito?
C'è un errore di fondo nel discorso di Colombo: lui contrappone il "c’è chi ti spiega che c’è ben altro da sgombrare" al "è più serio e più utile guardare a ciò che effettivamente accade in queste ore."
E' un discorso fallace perché 1) fa sembrare le colonie in Cisgiordanie semplicemente occupate, mentre "in queste ore" si stanno anche espandendo. E 2) perché le due zone geografiche non possono essere viste come entità separate, come si è portati a fare da questo martellamento giornalistico, ma sono indissolubilmente legate.
Un effetto collaterale della copertura giornalistica di queste ore è proprio il fatto che le si sta separando anche nella mente dell'opinione pubblica, oltre che nel destino che le attende.
La frase "Israele, il Paese del mondo più ferito e dilaniato dal terrorismo disumano delle bombe umane, sta negando la guerra di civiltà" è poi semplicemente indecente.
La guerra di civiltà (che Israele sta ampiamente vincendo) è insita nel fatto stesso che i palestinesi, il popolo più terrorizzato al mondo da 50 anni, vengano fatti passare per terrorizzatori di un presunto Stato ferito e dilaniato che risponde con la bontà.
Non si fa.
E' proprio scorretto.
Lia, è chiaro che ognuno può leggere un testo come vuole leggerlo, ma a me la frase «Israele, il Paese del mondo più ferito e dilaniato dal terrorismo disumano delle bombe umane sta negando la guerra di civiltà che piace tanto in certe retrovie italiane» non fa scandalo: si restituisce Gaza, è opinione diffusa che sia in progetto anche la restituzione della Cisgiordania, alla faccia dei coloni pazzi e dei fondamentalisti coi riccioletti e un cappello sopra l'altro.
Io ho voglia di leggere una volontà di pace negli eventi di questi giorni, sia pure compressa e martoriata dalla storia del popolo di Israele, da cercare con un cammino lungo, faticoso, costellato di ostacoli, dubbi e ripensamenti.
Credo sia possibile dare un forte contributo alla pace con uno sforzo di immedesimazione verso Israele almeno pari a quello che "compiamo ogni volta che un essere umano oppresso urla al mondo la sua voglia di libertà facendosi esplodere. Rispetto di ogni gesto che va in quella direzione, a prescindere, indipendentemente dal prima e anche dal durante, dai preconcetti, dalle considerazioni. E' utopia? E' ingenuità? Può darsi. Ma è anche l'unica possibilità che ci rimane, non inquiniamola con altra negatività.
Scusami se insisto, Alberto, ma è "opinione diffusa" in Italia, credo.
Forse sulla stampa USA e inglese, non so.
Io leggo la stampa spagnola (di quella non qui non parlo nemmeno, ché ha lo stigma addosso) e, ti assicuro, il modo di presentare la questione è totalmente diverso.
Ho già tradotto un pezzo di un fondo de El Mundo, giorni fa. Ora mi metterò a tradurre l'editoriale (non firmato) de El Pais, il lungo intervento di Felipe Gonzalez, la voce degli intellettuali di lì che sono, semplicemente, molto meno condizionati dal clima "politicamente corretto", se non peggio, che c'è in Italia.
Io non ho letto, sulla stampa di là, una virgola di queste spremute di sentimento che circolano da noi. E' proprio il linguaggio, che cambia, e si sta ai fatti, si affrontano le questioni serie del dopo-Gaza, si analizza la convenienza per Israele dell'operazione, si fa altro. Politica.
Basterebbe fare l'analisi del linguaggio degli editoriali italiani che vedo, invece. Stiamo annegando in una terminologia valoriale che pompa sul cuore e toglie ossigeno alla testa.
Io non posso stare a parlare di "sforzi di immedesimazione verso Israele", perché quello che c'è da fare è guardare il terreno, i fatti. L'immedesimazione è una categoria che riguarda i sentimenti, le emozioni. Non c'entra, non serve. Non è il punto.
Io contemplo, attonita, una sinistra che dice tutta contenta: "E ora speriamo che tocchi alla Cisgiordania" mentre già solo il Muro (che, ricordo, è totalmente illegale) sta inghiottendo (da solo!) il 10% della Cisgiordania. Ora, mentre scriviamo.
E mi ritrovo a fare la Cassandra che vuole rompere il giocattolo delle persone che tengono alla pace, è una sensazione orribile.
Il linguaggio è potere. Se ci mettessimo a contare gli aggettivi, i riferimenti ai valori, alla categoria del "buono" di cui è infarcita l'informazione italiana sull'evento, avremmo la percezione esatta di come si sta condizionando l'opinione pubblica italiana a schierarsi compatta al fianco di Israele nei prossimi anni, qualunque cosa accada.
E se comparassimo quest'analisi (linguistica, linguistica e basta) ad altre analoghe compiute sull'informazione in altri paesi, ci renderemmo conto che si manipolano le emozioni della nostra opinione pubblica saziandola al punto che lei stessa non avverte la mancanza dei fatti, non li chiede più.
Non c'è uno straccio di contesto, in quello che leggo da voi. Che Medio Oriente si sta disegnando e come si inserisce questa mossa nella strategia d'insieme? Che succede in Cisgiordania? Quale sarà la situazione effettiva di Gaza? Nulla. In questi giorni, di tutto questo, nulla. Psicologismi, speranze, sogni. Solo questo.
E il culto della personalità: Sharon è una star, in Italia, e appare a malapena nella stampa spagnola. Appare nella cronaca, non negli editoriali. Negli editoriali si parla della situazione, non della personalità del leader. Si guarda oltre, non si sacralizza il Capo. Nel bene e nel male. Perché il protagonista non è lui, è la situazione.
Ma forse non riesco a spiegarmi. Devo mettermi a tradurre, è l'unica.
Io, di temperamento, detesto essere pesante, insistente.
Però mai come adesso l'Italia mi ha fatto paura. Questo modo di informare, questo modo di usare le parole, è foriero di orrori autentici, ne sono certissima. La pubblicità al servizio dell'informazione serve a formare un modello "morale" di cittadino che sogna e non domanda. E chi non riesce ad adeguarsi a questo è relegato nell'estremismo, tra i settori "radicali" della sinistra, in una zona d'ombra assolutamente priva di protezione politica e sociale, giacché la sinistra ufficiale, anziché opporsi a questo modello, si piega come il pongo per meglio aderire ad esso.
Mi pare un incubo.
Io non sono un'estremista di nulla. Avrei disperatamente voluto votare, alle prossime elezioni. E non potrò, non è possibile. Questo linguaggio non è la mia lingua, io non posso avere nulla a che fare con questo modo di pensare e di sentire. Mi è estraneo, è swaili, non lo capisco.
Mi farò la tessera del PSOE e voterò alle Europee, vedrò se è possibile.
Ho l'impressione di tornare non in un paese, ma sul set di Arancia Meccanica.
Spero di non avere inquinato nulla con la mia negatività: e poi sono del tutto minoritaria, cosa vuoi che inquini.
E, chiarisco, non sono in polemica con te: ho il massimo rispetto della tua buona fede. Sono solo spaventata dal paese, dalla sua classe politica e dalla sua stampa.
Non è poco.