Prendi «Sette spade», vedrai una gran Cina
di Alberto Crespi / Venezia
La parola chiave è «wuxiapian». È il termine che definisce, in cinese, i film di arti marziali. La tigre e il dragone di Ang Lee è il «wuxiapian» più famoso in Occidente, ma per i cinesi è un film di mediazione, rivolto a un pubblico occidentale che non conosce la grande tradizione dei racconti «wuxia» nella letteratura e nel cinema. Il film che ha aperto Venezia, fuori concorso, Sette spade (esce il 2 settembre in Italia distribuito dalla Medusa), è invece un «wuxiapian» spudoratamente cinese, senza compromessi. Potremmo definirlo un film auto-referenziale tenendo però conto che parliamo di un’opera che, in quanto cinese, si rivolge ad alcuni miliardi di persone in Cina e in tutto il mondo. Il problema è tutto nostro, di noi poveri europei chiusi nelle nostre piccole culture celibi. Sette spade è in realtà un testo chiave per capire alcuni processi economici e culturali della contemporaneità. Il rapporto tra neo-capitalismo denghista e tradizione, la particolare declinazione post-maoista del mercato, l’aggressività dell’economia cinese, la rivalutazione dello yuan, le Olimpiadi di Pechino, il nuovo skyline che fa di Shanghai la New York del terzo millennio… Parla di tutto questo, Sette spade, anche se sembra parlare d’altro.
Tsui Hark, 55 anni, è il regista. Ha una storia complessa alle spalle. È figlio della diaspora cinese (è nato in Vietnam, all’interno della fiorente comunità cinese che viveva in quel paese prima che le guerre lo insanguinassero) e conosce bene la condizione di alieno. Ha studiato cinema in Texas e ha rubato agli americani tutti i trucchi. A 27 anni si è trasferito definitivamente a Hong Kong, dove ha inventato, assieme ad altri genietti (fra i quali John Woo, da lui lanciato), un cinema fiammeggiante impastato di Kurosawa, di Peckinpah, di Leone… e di tanta cultura cinese, dalla filosofia Zen a Bruce Lee.
Vale la pena di ripeterlo: per i cinesi, le arti marziali sono una cosa seria. «La letteratura wuxia spiega Tsui è una forma d’arte e di cultura a sé, e ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della cultura cinese. Incarna la romantica speranza in un mondo migliore, in cui gli eroi vivono tra noi, offrendo giustizia e protezione a coloro che non hanno il potere di difendersi da soli». Quest’ultimo punto potrebbe far pensare ai Sette samurai di Akira Kurosawa, ai quali Sette spade rende omaggio fin dal titolo. Ma l’umanesimo di Kurosawa era lontanissimo dal mondo di Tsui Hark. I samurai giapponesi erano poveracci quanto i contadini che difendevano. In Sette spade, tratto da un romanzo di Liang Yu-Shen, lo spunto è invece squisitamente politico: nel XVII secolo, la Manciuria conquista la Cina e instaura la dinastia Qing, che appena salita al potere dichiara illegali le arti marziali. Chi le pratica è un sovversivo, e va eliminato. Bande di killer scorrono il paese uccidendo gli adepti di quelle discipline, e intascando ricchissime taglie.
Due giovani abitanti di un villaggio minacciato, istigati da un ex boia che ha fatto ammenda, vanno a chiedere aiuto a un mitico maestro di arti marziali che vive nell’eremo del Monte Paradiso. Questi mette loro a disposizione sette spade magiche, dotate di personalità come la Durlindana di Orlando. Quattro discepoli del maestro si uniscono ai tre ribelli, e si preparano ad affrontare i cattivi…
Sette spade è l’epopea di un paese colonizzato che lotta per riconquistare la propria identità (non è casuale che uno dei sette eroi venga dalla Corea, eterno vaso di coccio fra i due vasi di ferro, Cina e Giappone). Tsui Hark, a cavallo tra anni ’80 e ’90, ha girato film che esorcizzavano il fantasma del 1997, l’anno in cui Hong Kong sarebbe tornata alla Cina. Ora, nel 2005, unendo la sapienza tecnica hongkonghese (da lì viene il sommo maestro d’armi Lau Kar-Leung, che ha all’attivo oltre 400 film) con le forze produttive di Cina e Corea, confeziona un impressionante manifesto dell’orgoglio cinese, un film di incredibile potenza espressiva in cui i codici del «wuxiapian» si impongono senza alcuna ambizione di «meticciato». È come se il cinema americano avesse ancora la forza e le facce per riproporre i western di John Wayne senza il minimo cenno di autocritica.
Se pensiamo che qui a Venezia il suddetto taiwanese Ang Lee porterà un film sui cowboy gay, viene da dire che l’offensiva cinese è totale: da un lato Lee aiuta Hollywood a demolire i suoi miti, dall’altro Tsui ci sommerge con un universo di violenze e di eroi a tutto tondo in cui i valori della «cinesità» appaiono incredibilmente più forti, più in salute, dei nostri. Nel cinema come nell’industria tessile, nello sport, nell’informatica, questi si accingono a spazzarci via. Ma noi europei, da decenni colonizzati da Hollywood, dobbiamo essere talmente laici da chiederci, come nella massima Zen: siamo sicuri che sia un male? Se i film sono belli e potenti come Sette spade, forse no.
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