Maria, Giovanni e Walkiria: la Resistenza da non dimenticare
Al 14° Congresso dell’Anpi tre storie di chi ha liberato l’Italia. «Ma noi partigiani non siamo reduci, noi facciamo politica»
di Wladimiro Settimelli
«SÌ, GUARDA, ERA PROPRIO una mattina come questa: nebbia, umidità e anche pioggerella. Sentimmo dei camion che arrivavano. Erano i fascisti, le cami-cie nere. I miei lo capirono subito e tirarono fuori le armi. Vidi mio padre Antenore che correva ad una finestra e cominciava a sparare. E anche tutti gli zii sparavano. Ma i fascisti avevano già dato fuoco ai fienili e le fiamme salivano alte. Le mucche, terrorizzate, muggivano nelle stalle, il nostro cane abbaiava ed era un pandemonio senza fine. Noi ragazzine stavamo piangendo. Era chiaro che mio padre e gli zii non avevano scampo».
Maria Cervi parla di quel 25 novembre del 1943. Siamo in una stanzetta e lontano ci arrivano le voci dei partigiani che animano il 14° Congresso dell'Anpi (che si conclude oggi). Parla Maria, ogni tanto sorride e quel gran faccione da contadina emiliana si riempie di rughe. Ha raccontato quei momenti mille volte ma, ad un certo momento, arrivano ugualmente affanno ed emozione. «Ho visto il vecchio Alcide, papà Cervi, scendere le scale di casa e infilarsi il cappello in testa con un gesto secco. Diceva che voleva uscire subito per salvare le vaccine dal fuoco. Mio padre e un altro figlio, lo hanno tenuto per le braccia mentre gli altri continuavano a sparare». «No, Cide, tu non esci. Rimani qui con noi. Stiamo tutti insieme. Io - spiega Maria Cervi - ho visto dallo spiraglio di una finestra decine di fascisti che facevano capolino da dietro gli alberi e sparavano, sparavano».
«Poi, finite le munizioni, i Cervi si sono arresi». Dice proprio «i Cervi». Come se si trattasse di una “banda” o di un battaglione. Riprende: «Ci hanno fatto scendere e portati fuori mezzi nudi com'eravamo. Il nonno continuava a dire: “Poveri figli miei, io non vi lascio, vengo con voi”. I fascisti si sono messi tutti intorno e ci hanno portato lontano dall'aia. Io ero scalza e con addosso quelle lunghe maglie di lana che, allora, avevano tutti i contadini. Servivano per il giorno e la notte. Siamo passati davanti a certi bravi vicini che stavano fuori dalla porta e che ci hanno preso dai fascisti e ci hanno dato del latte caldo. È l'ultima volta che ho visto vivo mio padre, gli zii e il nonno». I sette fratelli Cervi furono fucilati, tutti insieme, una ventina di giorni dopo. Alla fine della guerra, al vecchio Cide furono appuntate, sul petto, sette medaglie d'oro. I Cervi sono conosciuti in mezzo mondo e la loro casa, a Gattatico (in provincia di Reggio Emilia), lungo la pianura padana, ora è un museo, una fondazione un punto di ricerca sul mondo contadino e la Resistenza.
Al congresso di Chianciano c’è anche Giovanni Pesce, il gappista più famoso d'Italia (nome di battaglia «Visone»), è seduto accanto alla moglie Onorina Brambilla. Fu arrestata dalla brigata nera di Milano e per tre mesi torturata in ogni modo. Volevano sapere dove si trovava il marito ma lei non parlò e finì in un campo di prigionia. Riuscì a tornare. Pesce mi dice subito: «Vado in giro per le scuole e spiego ai ragazzi. Quando finisco c'è sempre qualcuno che dice: “Ti prego partigiano, racconta ancora. Io ricomincio”». Giovanni Pesce viene da una famiglia socialista. Viveva ad Acqui con i suoi, ma emigrarono tutti in Francia, per lavorare in miniera. «Intanto scrivi subito - mi chiede - che i nostri congressi non sono una rimpatriata “reducistica”. Noi facciamo sempre politica». Poi continua: «A quattordici anni già mi occupavo di socialismo. Avevamo una piccola bettola che la sera si riempiva di minatori. Uno mi disse che loro facevano politica anche per me. Per un domani migliore. Guarda, pare retorica, ma è tutto vero. Cercai di partire per la guerra di Spagna. Ero un ragazzo. Ci riuscii. Laggiù sono stato ferito tre volte. Il partito, subito dopo, mi ha rimandato in Italia e sono stato arrestato e confinato a Ventotene. L'8 settembre sono ritornato libero e all'arrivo dei nazisti ho cominciato la mia lotta da gappista. Per istruttore ho avuto Ilio Barontini. Caro, caro compagno Ilio. Era dura: mesi e mesi solo e qualche contatto solo con le staffette. Sì, è vero, ho sparato io a un colonnello fascista che mandava in Germania gli operai della Caproni. Negli attacchi usavo sempre due pistole. Arrivavo e ripartivo con la bicicletta. L'ho fatto per più di cento azioni. Avevo una paura terribile. La cosa che mi spingeva all'azione, era la certezza e la sicurezza della causa per la quale mi battevo. Dico oggi: una specie di “alta e giusta moralità della guerra di Resistenza”. Ero anche un grande ottimista e lo sono anche oggi che Berlusconi imbarca i fascisti nel governo».
Walkiria Terradura è un mito tra i «resistenti». Un personaggio lei e quelli di tutta la sua famiglia. Gente di Gubbio che finì in montagna al completo. E Walkiria sposò persino un gigantesco soldato americano conosciuto tra i monti, il suo Alphonse. Un po' curva, ma sempre elegantissima, ben truccata e con l'aria burbera. All'asola della giacca del tailleur, ha una specie di gioiello singolare: una stelletta d'argento che rappresenta la sua medaglia al valor militare. Sotto, il simbolo della «commenda» della Repubblica. Attacca a parlare ed è un fiume in piena. Racconta della sua famiglia e del padre avvocato antifascista. E di quella notte che gli spioni dell'Ovra, armi in pugno, circondarono la casa per prenderlo. Lei, ragazzina, riuscì a spingerlo in una intercapedine del soffitto. E i fascisti non lo trovarono. Erano stati i carabinieri ad avvertire l'avvocato Terradura che sarebbero arrivati quei mascalzoni. Quando andarono via, Walkiria, la sorellina minore e il padre, decisero di andare in montagna. Così fecero. E nei boschi, trovarono 139 jugoslavi fuggiti dalla prigionia, 33 russi, alcuni prigionieri inglesi e un gruppo di soldati italiani. Costituirono tre battaglioni diversi di partigiani. C'erano anche altre cinque ragazze. Una addirittura di sedici anni. Walkiria spiega della medaglia d'argento: «Guarda, io non ho fatto la staffetta, ma ho proprio combattuto con il mitra “Sten” in pugno. Ricordo tutto: le facce il freddo, la paura. Avevamo fatto saltare il ponte di Apecchio, a due passi di Città di Castello. Le cariche di dinamite erano state preparate e sistemate da Valentino, uno splendido guastatore dell'esercito. Qualche tempo dopo, i nazisti lo presero, lo torturarono e lo fucilarono. L'azione era andata benissimo, ma poi abbiamo visto arrivare i rinforzi: tre camion carichi di tedeschi. Ci siamo sistemati al riparo e quando gli autisti si sono accorti che il ponte non c'era più, si sono messi a fare manovra. A quel punto abbiamo attaccato».
Racconta ancora Walkiria: «Con mio padre e mia sorella, siamo rimasti in montagna fino alla fine ed è proprio a ridosso della linea Gotica che ho conosciuto quello che poi sarebbe diventato mio marito. Dopo, ho saputo che uno dei miei fratelli era andato a combattere con i partigiani in Jugoslavia e l'altro, invece, era finito in India prigioniero degli inglesi. Alla fine mi sono trasferita in America con Alphonse e ho avuto i figli. Dopo un anno siamo tornati. Perché? Era il periodo del maccartismo e non ci è piaciuto».
Avessero i dirigenzucoli nostrani una parte infinitesimamente minuscola della personalità di questa gente! Certamente vivremmo in un paese migliore.
Giovanni Pesce commuove.
Tu, ***one, purtroppo non fai nemmeno ridere;
fai solo rima.
quando non ci saranno più questi personaggi ci renderemo conto quanto ne avevamo bisogno.
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Visone Senatore
Sensi, battuta da maestro.
Chapeau
La cosa che mi spingeva all'azione, era la certezza e la sicurezza della causa per la quale mi battevo. Dico oggi: una specie di “alta e giusta moralità della guerra di Resistenza”
Sicuramente Pesce ha combattuto dalla parte giusta.
Tuttavia circa la validità "soggettiva" delle cause per cui ci si batte e la loro "giusta moralità" temo si finisca su un piano inclinato (e pericoloso).
Anche il kamikaze giapponese, quello islamico o addirittura il tenente delle SS che spara ai disertori sono intimamente convinti dell'alto valore etico della loro azione. In realtà il giudizio finale che conta è quello, obiettivo ed esterno, della storia.
Le guerre, poi, non sono mai giuste ne' morali.
A volte non si può evitarle.
L'importante è non pensare mai "gott mit uns"..
così non si capisce nulla, la battuta di sensi era riferita a un intervento di fotone che è stato (o dovrebbe) essere stato, spostato nel cestino...
Grazie Visone dei tuoi insegnamenti! Grazie Piccolo Grande Uomo!
Ora & Sempre Resistenza!