«Io israeliana dico: non è guerra di difesa»
di Umberto De Giovannangeli
«Basta con questa deriva militarista. Il passato non ci ha insegnato nulla? Oggi si dice che dobbiamo estendere la "fascia di sicurezza" di altri venti chilometri; domani ci diranno che neanche questo può bastare e che è necessario occupare Tiro, e poi Sidone e poi arrivare fino a Beirut. Come ventiquattro anni fa. Allora bisognava distruggere l'Olp ed eliminare Yasser Arafat; oggi il nemico da cancellare è Hezbollah e il "il cancro" da estirpare è Hassan Nasrallah. Ma per raggiungere questo obiettivo Israele deve occupare di nuovo il Libano, e mettere in conto migliaia di morti ed anche l'estensione del conflitto a livello regionale. A questa deriva io mi ribello e dico a coloro che governano: state giocando con la pelle di tanti giovani in divisa, ragazzi che mi sento di abbracciare: loro stanno rischiando la vita non solo per dovere di servizio ma perché erano convinti che questa guerra fosse una guerra giusta, di difesa. È stata così all'inizio, ma ora si è trasformata in qualcosa d'altro, di inaccettabile: una guerra contro un popolo, una guerra che non porterà sicurezza a Israele ma alimenterà l'odio nei nostri confronti nel mondo arabo e non solo».
A parlare è Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan. Insieme allo scrittore David Grossman ha preso parte alla manifestazione contro la guerra ieri davanti al ministero della difesa a Tel Aviv. «Israele è da sempre un Paese in trincea - sottolinea la scrittrice - che nella sua storia è stato costretto più volte a combattere guerre scatenate da leader arabi che puntavano alla nostra distruzione. Abbiamo vinto sul campo di battaglia ma ogni volta abbiamo scoperto che il prezzo di queste vittorie si faceva sempre più pesante. Ora la storia rischia di ripetersi. A Ehud Olmert e Amir Peretz dico: fermatevi, prima che sia troppo tardi. Abbiamo esercitato il nostro diritto alla difesa, ma questo diritto non può trasformarsi in un volontà distruttrice, in sete di vendetta».
I
l Consiglio di difesa israeliano ha deciso, anche se non ancora attuato,l'estensione dell'offensiva di terra in Libano. L'obiettivo dichiarato è di estendere ad oltre trenta chilometri dalla linea di confine la fascia di sicurezza. Solo così, affermano Ehud Olmert e Amir Peretz, sarà possibile garantire la sicurezza della popolazione della Galilea minacciata dai razzi Hezbollah.
«Ma già oggi c'è chi sostiene che neanche questa fascia potrà essere sufficiente e che per annientare Hezbollah il nostro esercito dovrà raggiungere Tiro, e poi Sidone, e poi Beirut... Insomma, rioccupare il Libano. Ma questa non è più una guerra giusta, di difesa, in risposta all'attacco a freddo lanciato da Hezbollah il 12 luglio; questa diviene una guerra che punta alla disintegrazione territoriale del Libano. Una follia che mette ancora più a repentaglio la sicurezza di Israele».
Una considerazione molto grave...
«Grave? Direi tragicamente realistica. Ma pensiamo davvero che una irachizzazione del Libano possa garantirci maggiore sicurezza? O forse riteniamo che proseguendo nei bombardamenti a tappeto, infliggendo ulteriori sofferenze e umiliazioni al popolo libanese, a un certo momento riusciremo a trovare un'alleanza con qualche milizia cristiano-maronita disposta, con il nostro sostegno, a finire per noi il lavoro sporco? Ma non ci rendiamo conto che ogni giorno di guerra oltre a costare la vita di nostri soldati, fa crescere l'odio verso Israele nel mondo arabo? Faccio mie le considerazioni di re Abdallah di Giordania, uno dei leader arabi che ha puntato alla pace con Israele: “Israele potrà forse distruggere Hezbollah in Libano, ma getterà il seme perché Hezbollah rinasca in Giordania, in Egitto... ”. Questa guerra che vorrebbe estirpare il "cancro" di Hezbollah rischia invece di produrre metastasi in tutto il Medio Oriente. Fermarsi oggi non sarebbe un segno di debolezza bensì una prova di lungimiranza politica. Nessuno lo scambierebbe come cedimento ai terroristi. Nella mia vita ho servito nell'esercito. So bene che a volte l'uso della forza è inevitabile, ma ho imparato anche che non sarà con la sola forza delle armi che Israele conquisterà la pace e un futuro da Paese normale».
Resta il fatto che la grande maggioranza degli israeliani sostiene ancora la linea della fermezza perseguita dal governo.
«Negli ultimi giorni questa granitica compattezza sta mostrando le prime crepe, all'interno dello stesso governo e del Partito laburista. Nessuno, sia chiaro, sottovaluta la minaccia di Hezbollah né mette in discussione che era necessario una risposta ferma al loro attacco, ma ciò che si chiede ad una leadership avveduta è di non trasformare la paura collettiva in azione di governo. In passato c'è chi ha saputo andare contro corrente, sfidando anche orientamenti consolidati nell'opinione pubblica».
A chi si riferisce in particolare?
«Penso a Yitzhak Rabin, quando decise di aprire all'Olp di Yasser Arafat, anche se la maggioranza degli israeliani era all'inizio contraria. Ma penso anche Ariel Sharon quando, contro la maggioranza del Likud, decise il ritiro unilaterale da Gaza. Oggi Israele si trova a dover rimpiangere i suoi Grandi vecchi».
È difficile predicare moderazione quando mezzo milione di israeliani vivono sotto la minaccia quotidiana dei missili di Hezbollah.
«Ammiro il loro coraggio e per questo chiedo a Olmert e Peretz di usare con loro il linguaggio della verità e di non vendere loro un'illusione: quella di poter garantire la loro sicurezza distruggendo Hezbollah. Forse riusciremo a distruggere i missili che oggi hanno a disposizione, uccidere centinaia di miliziani, ma quei missili verranno sostituiti come i miliziani uccisi. Prima o poi sarà necessario giungere ad un compromesso. Ridare ora la parola alla politica è fare gli interessi di Israele».