Es Iz Amerike!
Non è facile uscire da se stessi, levarsi un vestito buono, magari un po' liso per tanti anni d'uso, ma ancora comodo e presentabile, per indossarne uno nuovo e di taglio totalmente diverso. Non è facile neppure per un grandissimo artista come Moni Ovadia, che in questo
Es Iz Amerike! ci prova e ci prova a cambiar d'abito, ma non ciu riesce del tutto. Raggiunto il successo (un successo meritato, conquistato sul campo con anni di studio e duro lavoro) il milanese di Bulgaria si toglie il gusto di andare sul palcoscenico del più importante teatro milanese a divertirsi. Ne esce uno spettacolo altalenante, un misto tra musical, prosa e lezione di storia contemporanea che a tratti incanta, a tratti affatica, ma in qualche occasione affatica e delude anche lo spettatore più attento e affezionato.
Sono oltre due milioni gli ebrei dell'Europa orientale che tra fine dell'800 e inizio del '900 partono per il Nuovo Mondo. Abituati a condizioni di vita disumane, alla povertà più nera, decimati dai pogrom ordinati dagli Zar, lasciano gli stetl e arrivano a piedi fino ad Amburgo per attraversare l'oceano stipati su vecchie navi. Non troveranno una vita, tra depressione e pregiudizi, ma le difficoltà sono nulla per chi ha visto mulinare le spade e sopportato i bastoni dei cosacchi dello Zar. Gli ebrei si ambientano, si adattano, sfruttano le infinite opportunità del nuovo mondo, diventando progressivamente un elemento trainante per l'economia e la cultura, di fatto creando Brooklyn e Hollywood. Con una presenza sull'intera popolazione statunitense di circa il 2%, danno il 42% dei premi nobel americani e il 75% degli uomini americani più importanti nel mondo. Ma al contempo sono la comunità più vicina ai valori della democrazia e dell'uguaglianza, secondi solo ai neri nel voto democratico, che tra gli ebrei supera il 75% contro valori attorno al 50% delle altre comunità. Ma anche questo non basta a sconfiggere un antisemitismo che negli anni di McCarty raggiunge vette inaudite, paradossalmente lo alimenta di invidie e malumori.
«Il sottile razzismo di chi dice che "gli ebrei sono tutti molto intelligenti" è una balla colossale, dice Moni. Quegli ebrei erano esseri umani, come ogni altro uomo e donna, ma avevano tre vantaggi: l'abitudine a confrontarsi con situazioni disumane, le infinite esperienze offerte dal nomadismo, l'abitudine a studiare e discutere» (negli stetl tutti, dal rabbino al borsaiolo, leggevano e discutevano le interpretazioni). Per questo oggi il miracolo non si ripeterebbe, oggi i popoli emergenti sono altri, gli indiani e i cinesi per esempio. E nulla impedisce di credere che i prossimi saranno musulmani". Ovadia sostiene la sua tesi con il racconto dei primi settant'anni della vita degli ebrei americani del secolo scorso, dalle immigrazioni dei figli del Bund ad Hard Rain's Gonna Fall dell'ebreo Robert Zimmermann-Bob Dylan, passando per Al Jolson, ricordando il maccartismo dei primi anni '50, recitando Allen Ginsberg.
L'avvio dello spettacolo sorprende. E' la prima volta da tanto tempo che Moni Ovadia compare in scena senza zucchetto e senza coda, con un taglio postmoderno adatto sia agli anni '30 sia ai giorni nostri, sfoggiando uno smoking con la giacca che brilla sotto i riflettori. Racconta, canta e balla per oltre tre ore, instancabile, prorompente, tirando il fiato solo nelle pochissime occasioni in cui lascia tutto il palcoscenico alla bravissima Lee Colbert (voce straordinaria, che propone una carrellata di motivi yidddish) o alla Moni Ovadia Stage Orchestra (purtroppo con troppa parsimonia, un peccato vista la bravura dei musicisti).
Come accennato in apertura, Moni ha deciso che ora può permettersi di fare quello che lo intriga. Le storielle su Moyshele e Yenkele ormai se le sente strette addosso, aveva voglia di rinnovare il repertorio. Purtroppo ma non sempre ci azzecca e lo spettacolo ne soffre, risulta eccessivo, a volte prolisso, altre addirittura non all'altezza. In particolare abbiamo trovato davvero fuori luogo moltii momenti recitati in inglese: il brano di West Side Story, Wichita Vortex Sutra e soprattutto (lo diciamo con affetto e immutata stima) la pessima interpretazione di Hard Rain's Gonna Fall che tra l'altro chiude lo spettacolo che peggio non si poteva. Moni perde la testa, cerca di proporre un mix di Bob Dylan e Tom Waits, ma gli mancano i mezzi. Il pezzo (già spinoso e ripetitivo) è proposto con un arrangiamento sincopato che non aiuta, spesso e volentieri voce e band vanno ciascuno per suo conto, in un risultato da dilettanti allo sbaraglio che il palco dello Strehler non dovrebbe subire.
Sia chiaro, Es Iz Amerike! resta comunque un lavoro importante, interessante, utile per capire una storia recente che tanto ha dato al mondo, da vedere assolutamente. E Moni Ovadia resta un gigante del palco. Se poi risparmiasse al pubblico l'interminabile Allen Ginsberg, declamato con pomposità e accompagnato da una processione di cartelli che offrono una traduzione zeppa di refusi (per non parlare del Bob Dylan massacrato in chiusura), lo spettacolo ci guadagnerebbe un bel po'.
PS Bellissima l'immagine degli ebrei dell'est Europa del secolo scorso, che per tradizioni, musiche, cultura, culto, affinità, abitudini comuni erano un popolo vero, capace di restare coeso, solidale e straordinariamente vitale senza avere confini, fili spinati, controlli di passaporti, cavalli di Frisia, polizia, eserciti. Chi ci aveva pensato?
07.10.06 10:18 - sezione
teatro