Ci ho messo un po’ per decidermi a leggere “Milano città aperta“, il racconto dell’esperienza a Palazzo Marino di Giuliano Pisapia. L’elezione di Giuliano a sindaco di Milano è stata una gran bella giornata, per me e per molti, seguita però dalla delusione all’annuncio della sua squadra di governo. Così ho deciso di cogliere l’occasione del libro per sintetizzare l’evoluzione del mio giudizio sugli eventi che hanno seguito il 30 maggio 2011 di Milano. A qualcuno interessa? Non lo so, comunque mi scuso per la prolissità e la prima persona, non lo farò (quasi) più.
Pubblicato inaspettatamente un anno prima della scadenza del mandato, il libro ha suscitato un bel po’ di malumori e critiche pesanti, soprattutto per i capitoli dedicati alla giunta. Ho sempre considerato Pisapia una persona di valore e non ho cambiato opinione neppure dopo la delusione per i nomi della sua squadra di governo. Oggi capisco che c’erano ben poche alternative. La politica, come scrive Pisapia, non è muro contro muro, è mediazione, è governare l’esistente per ottenere dei risultati. Essere intransigenti al computer è (abbastanza) facile, ma è difficilissimo dal vertice di una struttura composita, articolata, in cui esiste di tutto: il bravo e l’inetto, l’interessato e il puro, l’onesto e il disonesto, il sincero e l’ipocrita, il generoso e l’avido. Per questo credo che Giuliano Pisapia non sia stato un “ometto onesto senza palle”, come affermano alcuni, ma un uomo pragmatico, deciso a impegnarsi a termine per la città e a svolgere al meglio l’incarico. Il fatto che si sia tolto in anticipo qualche sasso dalle scarpe, che abbia detto la sua su “rizzi e rozze”, senza peli sulla lingua (anche se con il consueto garbo) dichiara – a mio avviso – un suo impegno politico futuro in una sinistra che ha bisogno più di persone pragmatiche e di buon senso (come lui) che dell’ennesimo leader carismatico.
Per questo non concordo con le numerose stroncature. Giuliano Pisapia ha deciso di raccontare la sua storia di sindaco, di politico e di uomo quando è ancora al centro dell’attenzione non per egocentrismo (a che gli servirebbe?), ma per il desiderio di essere utile (“aiutando le parti che non si parlano a dialogare”) a quell’idea di sinistra moderna e credibile, delineata con lucidità nella parte conclusiva del libro.
Il riferimento all’«ho votato per te» è uno di quelli che mi dà più fastidio. Io ho le mie idee, che non cambio, ma oggi sono il sindaco di tutti. Ho i miei valori, sui quali non transigo. Ma non voglio essere un uomo di parte.
Frase illuminante. Il giorno dopo la vittoria Giuliano Pisapia deve aver subito un assedio di questuanti analogo alla scena dei lebbrosi in Jesus Christ Superstar. Ne ha dovuti sistemare la maggior parte, tanto che i primi atti firmati sono costati milioni di euro ai milanesi e una forte caduta di gradimento a lui. Ma dopo aver pagato questo pedaggio alla governabilità, è stato il sindaco di tutti, anche di chi lo ha avversato ideologicamente: la destra becera più decoratiana che morattiana, la sinistra intransigente con la vocazione della sconfitta, il ventre molle borghesuccio, i commercianti miopi sempre negativi sui cambiamenti, i gruppi di destra finto-per-bene, eccetera. Ma lui ce l’ha fatta abbastanza bene, tenendo a bada i riottosi e governando il governabile.
Il libro racconta una fiaba in cui tutto è fatto sempre bene e se qualcosa non funziona è colpa della sfiga, dei cattivi o delle circostanze sfavorevoli. In realtà non è proprio tutto come Giuliano lo racconta. Se è vero che Expo era una bomba pronta a esplodere ricoprendo di merda Milano, se è vero che Pisapia non ha responsabilità sul pregresso, è anche vero che dopo gli scandali alcune figure chiave sono rimaste al loro posto e che sono stati fatti accordi molto discutibili con i soliti supporter della politica. E soprattutto che la gestione di Expo è comunque troppo poco trasparente per essere vissuta bene dalla città (il fatto che a fine maggio non sia disponibile un dato sugli accessi fa pensare). Ma è anche vero che probabilmente c’era ben poco che Pisapia potesse fare su questi temi, quindi resta il beneficio del dubbio.
Tante altre cose di Milano non sono andate come avrebbero potuto, dalla Darsena (una briscola giocata come peggio non si poteva, puntando sul confronto comunque vincente con lo scempio precedente), al traffico, alla sicurezza. Ma va ricordato che l’evoluzione di una grande metropoli implica processi lenti: alcuni effetti sono già percepibili, altri si evidenzieranno col tempo.
Una sola cosa proprio non ci sta, la frase sui meriti della vittoria, assegnati alla squadra composta da «un maestro elementare, un socialista ex dirigente di Fininvest, una professoressa universitaria, un giuslavorista, una giornalista disoccupata, un funzionario di regione, un dipendente comunale in fase di scivolo, alcuni studenti, una giovane creativa e un esperto di web». Giuliano trascura l’universo sfaccettato di persone di ogni estrazione culturale, sociale e politica che si attivarono – ciascuno a modo suo, ma tutti con entusiasmo e impegno – per sostenere il progetto arancione. Certo, il suo cerchio magico ha fatto bene la sua parte, “posizionando” correttamente il “brand Giuliano Pisapia” per venderlo al meglio. Ma l’arcobaleno su una Piazza Duomo arancione, bellissimo dopo tanto grigio, non sarebbe stato possibile senza i milanesi che ci hanno creduto, o meglio “ci hanno voluto credere”, e si sono dati da fare per le strade, volantinando e presidiando i gazebo senza batter cassa dopo la vittoria. Un riconoscimento anche a loro, protagonisti sconosciuti e per questo ancora più meritevoli, avrebbe reso ancora più convincente un racconto per molti altri versi eccellente e realistico.
L’acquerello qui sopra è di mia cugina Dana Richards, è intitolato Pisapia Rally ed è stato ripreso da una foto pochi giorni dopo la festa del 30 maggio 2011 .