L’Expo mondiale ostenta qua e là un nazionalismo bonario e improvvisato (cavatappi e macchinette del caffè con il marchio “orgoglio italiano”, una mucca tricolore), e mostra un edificio in legno “per accoglienza Vip” (credevo che “Vip” ormai si dicesse per scherzo solo a Dagospia) che sembra un motel, con il balconcino tutto intorno, e una farmacia. E quasi subito sei di fronte a Palazzo Italia, probabilmente il più brutto nella storia dell’architettura, con un chiaro invito ai disabili a tenersi lontani perché dentro (dove non migliora) è tutto scale.
L’articolo di Furio Colombo su Il Fatto Quotidiano rimette l’Expo nelle sue giuste proporzioni. L’unico punto criticabile è quello in cui non c’è relazione tra Milano ed Expo. E su questo si può rispondere alla domanda finale di Furio.
Se è vero che la pubblicità è poca, è altrettanto vero che è (anche) grazie a Expo se Milano ha potuto darsi una mossa dal grigio torpore morattiano, avviandosi lungo un percorso di vivacità che è percepibile un po’ ovunque. Basterebbe questo per dire che alla fine ne valeva la pena.