Non serve essere “renziani” (certo non lo sono io) per cogliere le meta-motivazioni del cicaleccio che segue queste elezioni amministrative. I temi critici nei confronti del risultato di centrosinistra sono sostanzialmente quattro: (1) in Liguria s’è perso a causa di Renzi, che ha piazzato un candidato perdente, (2) in Veneto la candidata di centrosinistra è stata “asfaltata” (termine in voga a destra in questi giorni assieme a “rassemblemant”) dalla Lega, (3) il centrosinistra ha vinto con candidati “non renziani” e comunque (4) il vero sconfitto è Renzi.
Al di là dei giudizi sulle politiche del governo di Matteo Renzi (che in faccende amministrative c’entrano poco), queste analisi sono talmente bislacche da convincere anche un non-renziano come me che alla fine gli altri sono peggio. Ma andiamo con ordine.
1) in Liguria il centrosinistra ha perso (forse) a causa di un drappello di profughi a caccia di un posto al sole, che per spiazzare il leader hanno piazzato un loro candidato in concorrenza con quello ufficiale. Civati, Cofferati, Cuperlo, Fassina & C. hanno ben compreso l’insegnamento di Pierferdinando Casini e Bettino Craxi: meglio essere leader in una minoranza da 9% che uno tra tanti in una maggioranza da 40%. Il proporzionale è vivo e lotta con loro, consapevoli che gli aghi della bilancia possono arrivare a contare più di un partito di maggioranza, garantendo comodi posti al sole per tanti anni a venire.
2) Il Veneto è tradizionalmente incubatrice dei valori (si fa per dire) leghisti. Il corpo elettorale – in buona parte ignorante, xenofobo, misogino, omofobo e bacchettone (salvo trombarsi la badante magrebina nella tavernetta) – trova in Zaia un punto di riferimento ideale. Nessun portatore di idee appena meno reazionarie potrebbe spuntarla contro Rodolfo Favaretto in Veneto. Che poi lui prenda il 35, il 45 o il 55% e l’avversari* un terzo o la metà di lui non cambia nulla. Ogni candidatura di centrosinistra in Veneto – oggi e fino a nuovo ordine – è puramente di bandiera.
3) Matteo Renzi ha gestito una situazione elettorale resa complessa anche da un partito in profonda ristrutturazione, in cui le vecchie glorie che non si rassegnano a uscire di scena seminano conflitti e trappole. Si aggiunge la complessità di dover creare al più presto un ricambio, a costo di piazzare qualche faccia di poco spessore o di scendere a compromessi con qualche portatore di voti che garantisca la vittoria. La vicenda campana è sintomatica: Renzi doveva decidere se lasciar vincere Vincenzo De Luca da solo, piazzando un’altra candidatura di bandiera e venendo estromesso dal governo campano, oppure se accordarsi e appropriarsi di qualche quota di potere. Ha gestito la crisi scegliendo l’opzione vincente e condividendone la vittoria, pronto a confrontarsi con le complessità del futuro prossimo.
4) Sono circa 43mila i voti che distaccano Paita (183.272) da Toti (226.710). Se ai voti di Paita aggiungi i 61.988 voti di Pastorino ottieni la vittoria in Liguria. Quindi ci sono 61.988 elettori che hanno considerato “non di sinistra” Paita e per dirlo forte hanno consegnato la Liguria al forzista Toti, uno che basta sentirlo parlare a Otto e Mezzo per capire che tipo sia. Quindi, scusate, qui il vero sconfitto non è certo Matteo Renzi (sotto la cui leadership il centrosinistra comunque passa da 6-6 a 10-2), ma sono nell’ordine (1) la Liguria – che ha dato una magistrale dimostrazione di come a volte un marito può tagliarsi pisello e palle per fare un dispetto alla moglie – e le minoranze di sinistra, che per coltivare il loro orticello hanno regalato la regione a uno che sembra Denis Verdini dopo un lifting.
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