Già due iscritti alla corsa a Palazzo Marino del 2016 (Emanuele Fiano e Pierfrancesco Majorino) e la certezza che anche questa volta ci saranno le primarie. Ma siamo proprio sicuri che sia una buona idea? Il recente disastro in regione Liguria è un segnale preoccupante, ma va ricordato anche Milano 2005, in cui le truppe cammellate del maggior partito di coalizione fecero vincere un candidato perdente, un fattaccio che avrebbe potuto ripetersi nel 2010.
La prendo larga. In questi giorni di discussioni su #grexit la parola “democrazia” è sulla bocca di tutti, ma troppo spesso a sproposito. La nostra – come quella greca – è democrazia rappresentativa, il cittadino dà mandato a una parte di realizzare le promesse elettorali votando un progetto di società.
Ma in questa epoca interconnessa le fragilità del sistema sono accentuate:
- la competizione obbliga i candidati a sparare tutte le cartucce in campagna elettorale, comprese quelle che non hanno (tante promesse elettorali di Giuliano Pisapia)
- la necessità del maggior partito di trovare un antagonista agli outsider può spostare la scelta su nomi di richiamo o con sponsor forti (che in caso di vittoria batteranno cassa), indipendentemente dalle attitudini e dal valore (Stefano Boeri 2010, regione Liguria 2015)
- la demagogia ha buon gioco in un’audence assuefatta alle urla (vedi risultati di Lega e M5S), abbassando il livello del confronto politico (ancora Bruno Ferrante nel 2006)
- le residue truppe cammellate possono ancora spostare l’ago della bilancia su un nome inadeguato (Bruno Ferrante nel 2006 e un grosso rischio con Stefano Boeri nel 2011)
- da ultimo, è assodato che la gran parte dei votanti in buona fede (ovvero chi non è portatore di interessi specifici) sceglie sulla base di un’emozione estemporanea piuttosto che sull’analisi dei candidati, della loro storia, dei programmi, delle potenzialità.
A questo punto la proposta alternativa: sbarazziamoci delle primarie e affidiamo la selezione del miglior candidato possibile a un gruppo di lavoro organizzato dalle diverse forze politiche della coalizione, di cui facciano parte anche riconosciute personalità locali e nazionali, stackeholder virtuosi, rappresentanti autorevoli della società civile.
E’ evidente una debolezza: la difficoltà di superare il proprio tornaconto, l’interesse diretto, a favore di quello comune, fin dalla definizione del gruppo di lavoro. Ma, d’altro canto, se veramente si vuole trasformare l’attuale sistema politico arcaico in un meccanismo più efficiente e adeguato a valorizzare la grande energia propulsiva di Milano, è un rischio che deve essere necessariamente corso.