La mostra Milano e la mala a palazzo Morando è un’occasione sprecata: monca di mezzo secolo, con documenti fotografici scarsi e già visti, testi troppo lunghi e poco esaustivi, superficialità e carenze nella contestualizzazione storica.
La mostra-racconto “Milano e la Mala” parte dall’immediato dopoguerra (smentendo il sottotitolo “dalla rapina di via Osoppo”) e si ferma all’inizio degli Anni di Piombo, non rendendo giustizia alla vera epoca della mala di Milano, così come è tramandata dalla tradizione popolare milanese, che nasce a fine ‘800 e ha la caratteristica unica di essere indipendente dalle grandi organizzazioni criminali.
Quello della ligéra era un mondo a sé, popolato da poveri cristi di origine rurale o proletaria, che vivono di furtarelli, piccole truffe, espedienti e prostituzione, molto solidali tra loro, con un codice di comportamento condiviso e una vena romantica che si evidenzia negli anni del fascismo, quando la mala milanese spesso di mescola con la Resistenza, a cui partecipa attivamente (emblematica la canzone “Ma mì” di Giorgio Strehler).
Il problema è duplice: (1) c’è un mezzo secolo precedente alla fine della guerra che viene completamente trascurato e (2) la narrazione accomuna erroneamente la ligéra alla degenerazione criminale e mafiosa degli anni ’70, assimilando senza distinguo i malnatt di via Fiori Chiari e dell’Isola ai criminali veri legati alle cosche mafiose. Personaggi come Luciano Liggio e Angelo Epaminonda – socialmente estranei alla mala milanese milanese – sono raccontati senza sottolinearne il significato storico: la fine della ligéra con l’invasione delle cosche mafiose a Milano.
Non mancano i difetti narrativi: molto fastidiose la frammentazione delle storie, la superficialità dei testi e la mancanza di informazioni in alcune sezioni. Qua e là la comprensione dei fatti narrati è difficile, per esempio nelle sale dedicate alla banda di via Osoppo e alla banda Cavallero, dove manca del tutto la riflessione sul significato storico e sociale di quegli avvenimenti.
Per la pochezza degli oggetti in mostra (due o tre divise e qualche arma da fuoco) e l’ampiezza dei testi in relazione al materiale fotografico (peraltro non inedito e facilmente reperibile online), questo lavoro – opportunamente arricchito, organizzato e contestualizzato storicamente – sarebbe a proprio suo agio in un libro di buon formato, corredato da un supporto multimediale che offra una selezione del magnifico patrimonio artistico sulla mala milanese.
In estrema sintesi: tema interessantissimo e buona idea, ma la briscola è stata giocata male.
PS: anche la storia del glorioso Derby Club, totalmente fuori contesto e raccontato come un locale malfamato, è una stortura storica del tutto arbitraria parecchio fastidiosa.