Bisogna tornare alle ragioni della nascita dell’Ulivo, quella “spinta fortissima della base che invocava e imponeva unità, consapevole che, diversamente, non avremmo toccato palla contro un avversario come Berlusconi” per comprendere la crisi del Partito Democratico.
Nel bel thread dedicato al mancato ritiro di Matteo Renzi dopo la batosta elettorale del 4 marzo 2018 sul wall Facebook di Luigi Ambrosio ci sono parecchi interventi di qualità. Ma uno in particolare merita di essere salvato, perché fa luce dall’interno sulla storia del PD a partire dalla crisi dei partiti di fine anni ’90. E perché individua con incredibile lucidità l’unica strada possibile per uscirne. E’ di Stefano Facchi, che non conosco personalmente, ma è il miglior commento che io abbia letto dopo queste elezioni.
NOI METICCI: LA LUNGA MARCIA DALL’ULIVO AL PD.
Non essendo uno di quelli che con la velocità di un fulmine riesce a salire e scendere dai carri, voglio provare ad abbozzare un ragionamento.
In questi anni ho sostenuto la segreteria di Matteo Renzi pur avendo appoggiato Bersani nelle primarie del 2012.
Posso dire di conoscere abbastanza bene questo partito.
E in questo partito vi è una grande parte del corpo militante e dirigente che, per usare un termine orribile molto in voga ai tempi dell’Ulivo, si è METICCIATA: sono i molti “nativi democratici” e anche coloro i quali, provenendo dai diversi partiti (nel mio caso i Verdi), hanno percorso questo tratto di strada intrecciando culture che avevano certo qualcosa in comune ma, anche, differenze siderali.
Al punto che oggi ci si interroga sgomenti e si ragiona con la consapevolezza che non esistono porti di partenza ai quali ritornare per ritrovare la propria casa.
Dobbiamo sempre ricordarlo: il PD non nasce dal colpo di genio di qualcuno.
Nasce da una crisi devastante e irreversibile dei partiti storici del centro sinistra italiano.
Questo è stato l’Ulivo: una spinta fortissima della base che invocava e imponeva unità, consapevole che, diversamente, non avremmo toccato palla contro un avversario come Berlusconi e nell’Italia delle seconda repubblica.
L’ho presa un pò lunga, ma se non si coglie questo percorso non si capisce neppure la vicenda Renzi e perchè quelli della ditta siano sempre stati (per scelta e per cultura politica) un corpo a parte nel partito con i propri riti, i propri riferimenti e la pretesa di salvaguardare una appartenenza.
Ed è questo nostro mondo di meticci che ha visto in Matteo Renzi la spregiudicatezza ma anche la determinazione e la freschezza necessarie per cambiare le cose.
Li abbiamo colti, eccome, i limiti del giovanotto, evidenti soprattutto osservando la vita interna del partito.
Ma è prevalsa la convinzione che, ad oggi, lui meglio di tutti abbia rappresentato la contaminazione che ognuno di noi ha vissuto. Solo così si riesce a spiegare l’adesione di popolo alle primarie dello scorso anno, dopo la bruciante sconfitta del referendum.
Ed è per questo che risulta stonata una lettura come quella che parte dal livello personale e non coglie il travaglio, abbastanza drammatico, che vivono i meticci.
I quali sono, oggi, la grande maggioranza di questo partito.
Una lettura che si basi sul fatto che tolto di mezzo Renzi le cose cambino e si viri di 180° significa vedere il pd, con tutte le ferite chiaramente evidenti, come una massa di pidioti che il capo muove a proprio piacere.
Quello che molti paventano come un horror per molti nel pd di oggi è un auspicio: che non venga bruciato, dopo Prodi, Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, l’ennesimo leader per cambiare tutto senza che cambi nulla.
Renzi ha comunicato il proprio passo indietro ma, per come la vedo io, non può essere lo Schettino della situazione.
Si rimbocchi le maniche, insieme agli altri (a TUTTI gli altri) per ripartire facendo una cosa che non si fa da tempo immemorabile: parlare di contenuti e trovare idee che ci rendano comprensibili al Paese.