Per la prima volta da quando ho la tessera elettorale non sono andato a votare e per la prima volta la mia dichiarazione di voto arriva quando le urne del referendum 2020 sono chiuse. Non per pigrizia o disinteresse, ma come scelta politica. Il mio voto è stato un non-voto.
La Costituzione italiana (che molti definiscono “la più bella del mondo”, ma si sa che ogni Paese definisce così la propria) è stata fatta in un momento storico particolare, dopo una guerra persa e un 8 settembre infame, seguito da una guerra civile che ha contribuito a ripulire l’Italia dal fascismo. La Costituzione, che affonda le proprie origini nel 25 aprile, è stata scritta da un gruppo di persone di altissimo profilo culturale, uniti dall’amore per la ritrovata democrazia repubblicana, ma divisi da differenti sensibilità politiche.
I Padri costituenti hanno fatto un lavoro straordinario, visti i tempi stretti, la situazione del Paese e l’eterogeneità del gruppo, riuscendo a conciliare l’inconciliabile. Un mirabile lavoro di cesello, ma farcito di rinunce e omissioni indispensabile a conciliare l’inconciliabile, ma complicando nel tempo la vita di legislatori e Corte Costituzionale, oltre a innescare storture come per esempio la mancanza di regole chiare sui partiti politici o l’(ab)uso da parte dei governi di decreti legge e fiducia.
Per varie ragioni che trascendono questa riflessione penso che oggi la nostra politica sia al collasso culturale e civile, con poche ammirevoli eccezioni come il Presidente della Repubblica, perla rara di sapienza e pacatezza. Ma ci ritroviamo un Di Maio alla Farnesina, abbiamo visto Matteo Salvini al ministero dell’Interno, un Pillon in commissione Giustizia e parlamentari del calibro di Cunial e Razzi, tanto sprovvisti di cultura e/o esperienza professionale da essere facile preda delle lusinghe di un potere finalizzato a corrompere per nutrirsi e autoconservarsi.
Il risultato di questa decadenza, innestata sui risultati di 30 anni dominati dalle televisioni tette-culi di Berlusconi, è un 40% dei votanti a favore di un raggruppamento politico filofascista ed euroscettico, che continua ad alimentare il proprio consenso raccontando quello che i poveri di spirito vogliono sentirsi dire, che siano balle o fesserie.
Vengo quindi al mio non-voto al referendum 2020 di modifica costituzionale per il taglio dei parlamentari. La Costituzione italiana inizialmente fissava una rappresentanza in base al numero dei cittadini (un deputato ogni 80mila cittadini e un senatore ogni 200mila), poi fu modificata nel 1963 fissando i numeri di oggi per limitarne la crescita.
Da bravo cittadino ho letto le ragioni del SÌ e quelle del NO, senza ascoltare gli slogan e la noiosissima guerrilla degli hashtag su Twitter, cercando di leggere opinioni autorevoli per capire quali possano essere soprattutto in prospettiva gli effetti di tale modifica. Confesso di non essere riuscito a farmi un’opinione che mi convincesse. E questa è la prima ragione.
La seconda è il disgusto per la mandria di mille parlamentari strapagati e determinanti per il futuro del Paese che affidata non solo a me, ma alla folla di analfabeti funzionali di cui sopra, l’onere di modificare un testo scritto tra gli altri da Piero Calamandrei, Giuseppe Di Vittorio, Giorgio La Pira, Nilde Iotti, Aldo Moro.
Non ce la potevo fare. Questo referendum 2020 è nato come strumento di propaganda populista del movimento di Casaleggio e Grillo (quello che appena arrivato a Palazzo ha “sconfitto la povertà” riempiendo le poltrone coi compagni di merenda), ma ha preso la mano a ideatori e oppositori, diventando strumento di conta politica. Qualunque sia il risultato, costoro – talmente stupidi da pensare di essere lì perché dotati di grandi menti e non per una fortuita combinazione di circostanza – lo sfrutteranno comunque per il proprio immediato tornaconto (e soprattutto per quello dei loro burattinai). Ma per cambiare il paese ci vuole ben altro che qualche centinaio di peones in meno tra Camera e Senato.
PS la prossima volta a votare ci vado eccome e spero di poter mettere una croce sul nome di Beppe Sala per il secondo mandato a Milano.