Dedico questa storia a chi mal sopporta difficoltà e limitazioni causate dalla pandemia di Covid-19. Può aiutare a comprendere che i problemi veri da affrontare nella vita sono ben altri. La storia di Luigi Biraghi lo dimostra.
Luigi Biraghi (in basso a destra nella foto qui sopra, quando aveva sei anni) nasce il 7 aprile 1914 a porta Magenta, terzo di tre fratelli. A tre anni resta orfano di padre a causa della pandemia di spagnola. La madre lavora 18 ore al giorno per mandare avanti la famiglia, ma lui riesce a studiare, si diploma ragioniere, trova un impiego e si iscrive anche alla Bocconi. Svolge il servizio militare frequentando il corso allievi ufficiali nel corpo degli alpini. Si sposa nel 1941 con R. e nel 1942 nasce il loro primo figlio, R., ma poco dopo averlo visto viene richiamato. Nella foto qui sotto è l’alpino a destra.
L’8 settembre 1943, di guarnigione in Francia, decide di non abbandonare al proprio destino i suoi alpini (come invece hanno fatto i gradi maggiori del suo reggimento). Quando arriva l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi comincia il suo calvario da internato non collaborazionista nei campi di concentramento nazisti. Sono due lunghissimi anni da cui uscirà sorprendentemente vivo, seppure ridotto pelle ossa e giallo per l’itterizia. Riceverà la Croce di Guerra e il titolo di Volontario della Libertà per non aver ceduto alle lusinghe della Repubblica di Salò, accettando le quali avrebbe potuto tornare subito a casa.
Quando arriva a Milano (dove intanto i suoi cari hanno patito la fame e si sono confrontati con la ferocia nazista, la carestia, gli sfollamenti, le tessere annonarie, eccetera) scopre che la casa della sua famiglia in via Tasso è un mucchio di macerie. Non ha più nulla oltre ai vestiti che indossa. Alloggia in modo precario presso i parenti per alcuni mesi, mentre si inventa un modo per sbarcare il lunario. Impegnando l’unica cosa che gli è rimasta (una macchina fotografica Leica) e facendo un po’ di debiti avvia una piccola impresa edile, in società con il cognato N., geometra e dà il suo contributo a ricostruire Milano distrutta dal bombardamenti.
Nel 1947 nasce la figlia L., ma due anni dopo, nel 1949, sua moglie R. muore. Resta con due figli a carico e un lavoro che lo impegna allo stremo, costretto ad andare in cantiere portandosi la figlia di due anni sul sedile della Topolino. Nel 1950 ritrova un’amica di infanzia, G., che lo sposa facendosi carico anche dei due figli del precedente matrimonio, che all’epoca hanno nove e quattro anni. Nel 1953 nasce A., il suo terzo figlio.
Nel 1956 muore il socio-cognato N. e Luigi Biraghi deve continuare da solo, in attesa che il figlio R. si diplomi geometra per prendere il posto dello zio.
Nei primi anni ’60 Luigi Biraghi comincia a vedere i primi frutti della sua fatica e nel 1964 porta la famiglia a sciare per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno. Nell’ultima discesa di una bella giornata cade e si rompe una gamba. Non sarebbe gran cosa, ma l’ortopedico dice che occorre un intervento di riduzione. L’anestesista sbaglia la dose di narcotico procurandogli danni neurologici permanenti e un’emiparesi parzialmente irreversibile. Si è addormentato che era una roccia con una gamba rotta, si risveglia invalido. La causa con l’ospedale durerà 25 anni e Luigi Biraghi la vincerà in Cassazione, ma tre mesi dopo essere morto.
Combattendo depressione e difficoltà fisiche indotte dalla batosta senza mai lamentarsi, comincia a ricostruirsi con ginnastica e fisioterapia. Dopo un mese cammina, dopo due mesi acquista un’auto con cambio automatico perché il piede sinistro ha poca sensibilità sulla frizione, dopo tre mesi torna in ufficio.
Durante la sua malattia l’azienda è stato portato avanti – con difficoltà – dal primo figlio R., a cui Luigi Biraghi aveva donato il 50% di proprietà dopo il diploma di geometra. Ma poco dopo il figlio R. gli dice che il lavoro è troppo duro, che vuole andarsene. Luigi Biraghi spende quasi tutto quanto aveva per riacquistare le quote del figlio R., il quale sperpererà il denaro un paio d’anni anni. Si farà vivo ciclicamente, sempre male in arnese, per battere cassa e il padre lo aiuterà ogni volta, ma senza apparire, avendo messo come condizione per il suo ritorno in famiglia un aspetto decente e un posto di lavoro. Purtroppo il figlio R. non gli darà mai questa gioia.
Dopo l’incidente Luigi Biraghi lavora per altri 20 anni, anche se a ritmo ridotto a causa delle difficoltà fisiche, garantendo tuttavia alla sua famiglia una buona vita. Nel poco tempo libero studia la storia e il dialetto della sua Milano, legge, scrive, aggiusta oggetti nel piccolo laboratorio che si è costruito in cantina, invita amici e alpini a mangiare la casoeula. Imbottiglia il vino sollevando da solo le damigiane da 50 litri per metterle sul tavolaccio della cantina. È appena può lo offre.
Nel 1984 decide di aver lavorato abbastanza. Potrebbe vendere l’azienda, invece la dona ai dipendenti, che la trasformano in una cooperativa e continuano l’attività da padroncini. Da pensionato Luigi Biraghi continua a osservare orari rigorosi, esce alle 8 del mattino, fa una lunga passeggiata («guardando in su, perché a Milano le cose belle sono in alto») fino a una palestra in centro, dove nuota e fa ginnastica con altri “vecchiotti”, con cui fa subito gruppo.
Il giorno del settantacinquesimo compleanno, il 7 aprile 1989, Luigi Biraghi ha difficoltà a respirare. Il medico ordina una radiografia, che rivela del liquido nei polmoni. Gli viene diagnosticato un tumore alla pleura, non curabile. Resta in ospedale a fasi alterne finché il 10 giugno 1989 torna a casa definitivamente, come malato terminale. Deve tenere la mascherina dell’ossigeno e due volte alla settimana uno pneumologo gli infila lunghi aghi nel petto per far defluire il liquido e consentirgli di respirare.
Il 16 giugno 1989 per la prima volta dopo parecchio tempo fa un consistente acquisto di vino per corrispondenza dal Club delle Fattorie di Pienza. Sorride soddisfatto dietro la maschera dell’ossigeno e dice alla famiglia: «così potrete bere alla mia salute per un po’». Quando il figlio A. replica «Ma dai papà, lo berremo insieme!» lui gli fa una carezza sulla mano (prima volta, non sopportava quelle che lui definiva “smancerie”) e risponde tranquillo: «Fatelo voi il brindisi. Io ho fatto il mio dovere e adesso sono stanco, ho proprio bisogno di riposarmi un po’.»
Poche ore dopo, all’alba del 17 giugno, entra in coma. Il figlio A. che gli tiene la mano sente svanire la pressione alle 7 esatte del mattino. Il giorno dopo, quando la bara esce dal portone di casa, ci sono dodici alpini e il presidente dell’Associazione, il suo amico colonnello Rezia, con il gagliardetto ad accompagnare «il Bira che va avanti».
Ancora oggi chi l’ha conosciuto lo ricorda con simpatia, affetto, gratitudine, stima. Il giorno della sua morte Milano ha perso uno dei suoi ultimi 600 figli e un pozzo di conoscenza sulla storia e la cultura meneghina.
Ecco, finisce qui la storia di mio padre, Luigi Biraghi, ti ringrazio di averla letta. Ho deciso di raccontarla, in questo strano 2020 di pandemia, in cui non si può bere l’aperitivo al bar, non si può andare in palestra, al cinema e a sciare. E tanti hanno difficoltà di lavoro. Però proprio in tempi come questi la storia di Luigi Biraghi può aiutare a capire che non è mai il caso di disperarsi, perché ci sono e ci saranno momenti difficili, ma il futuro è comunque nelle mani di ciascuno di noi, prima ancora che in quelle di chi ci governa. E allora, per piacere, usa la mascherina, tieni la distanza, evita i luoghi a rischio, lavati le mani e soprattutto inventati qualcosa da fare che sia utile e compatibile con il momento storico. Perché, come insegna la storia di Luigi Biraghi, nella difficoltà l’unica cosa da non fare è lamentarsi.