“Chi si lamenta della presunta censura ha minacciato più volte di introdurre una forma subdola di censura, che lascerebbe i soggetti della rete esposti alle azioni risarcitorie.” Una riflessione di Giuseppe Colaiacono, avvocato, sulla rilevanza pubblica dei social media.
Da un giornale [NdR: Il dubbio] che dovrebbe essere un organo dell’Avvocatura mi aspettavo qualcosa di più articolato, ma va bene, affrontiamo pure il tema: “Facebook può censurarci?”.
La prima cosa che viene in mente a tutti è: “Facebook è una società privata, fa quel che vuole”.
Facendo entrare diritto e complessità in questa affermazione dovremmo più esattamente dire che, accanto alla sacrosanta natura privata di alcuni enti, si pone talvolta la cosiddetta “rilevanza pubblica”: il suo manifestarsi più basico è quello della responsabilità sociale di impresa, una cosa che sta tra la moral suasion e il marketing, ma che salvaguarda il nucleo di autonomia del soggetto economico.
In alcuni settori, però, e tipicamente in quello della informazione, il privato diventa più pubblico perché, oltre al buon senso e alla richiamata responsabilità sociale, ciò è imposto dalle leggi, dall’ordine pubblico, e dalla morale.
Mettiamo che un muflone nostrano si presenti presso la sede di Repubblica chiedendo di pubblicare un annuncio a pagamento in cui si sostiene la necessità di assaltare il Parlamento e trafugare la poltrona della Casellati. L’addetto lo inviterebbe ad uscire e a rotolarsi nel guano di Piazza Indipendenza.
Nessun altro giornale presso il quale si recasse così lercio e malconcio lo accetterebbe (oddio, ne conosco un paio che forse sì, ma per quelli la definizione di “giornale” è un po’ ottimistica), semplicemente perché dar voce a una follia del genere sarebbe immorale, pericoloso, totalmente folle, socialmente ed eticamente irresponsabile.
Per quale motivo un social network dovrebbe essere esentato da tale responsabilità e costretto a operare diversamente, lasciando che l’annuncio guanoso sia pubblicato? E, a maggior ragione, perché si dovrebbe impedire a un social network di rifiutare il suo ruolo di megafono, imponendo una sorta di neutralità cui non è costretto alcun altro soggetto?
Non a caso, la minaccia di Trump nei confronti di Twitter e c. è stata sempre quella di rimuovere un privilegio presente nella normativa statunitense (assente in quella europea, se non a particolari condizioni), ossia quello della esenzione dalla responsabilità per i contenuti immessi dagli utenti.
Capite? Chi si lamenta della presunta censura ha minacciato più volte di introdurre una forma subdola di censura, che lascerebbe i soggetti della rete esposti alle azioni risarcitorie.
Ecco di che pretestuosità stiamo parlando.
Allora, basta parlare di censura. Parliamo di responsabilità della piattaforma su cui ci troviamo, e imponiamole delle scelte (che per la verità sta già facendo) di carattere etico: contro le fake news, contro l’odio e a favore della salute. Se ciò porta (e non può non portare) come logica conseguenza l’oscuramente di un Presidente che sparge false notizie, soffia sulla fiamma dell’odio, propala notizie antiscientifiche, non possiamo che esserne contenti.
La prima cosa che viene in mente a tutti è: “Facebook è una società privata, fa quel che vuole”.
Facendo entrare diritto e complessità in questa affermazione dovremmo più esattamente dire che, accanto alla sacrosanta natura privata di alcuni enti, si pone talvolta la cosiddetta “rilevanza pubblica”: il suo manifestarsi più basico è quello della responsabilità sociale di impresa, una cosa che sta tra la moral suasion e il marketing, ma che salvaguarda il nucleo di autonomia del soggetto economico.
In alcuni settori, però, e tipicamente in quello della informazione, il privato diventa più pubblico perché, oltre al buon senso e alla richiamata responsabilità sociale, ciò è imposto dalle leggi, dall’ordine pubblico, e dalla morale.
Mettiamo che un muflone nostrano si presenti presso la sede di Repubblica chiedendo di pubblicare un annuncio a pagamento in cui si sostiene la necessità di assaltare il Parlamento e trafugare la poltrona della Casellati. L’addetto lo inviterebbe ad uscire e a rotolarsi nel guano di Piazza Indipendenza.
Nessun altro giornale presso il quale si recasse così lercio e malconcio lo accetterebbe (oddio, ne conosco un paio che forse sì, ma per quelli la definizione di “giornale” è un po’ ottimistica), semplicemente perché dar voce a una follia del genere sarebbe immorale, pericoloso, totalmente folle, socialmente ed eticamente irresponsabile.
Per quale motivo un social network dovrebbe essere esentato da tale responsabilità e costretto a operare diversamente, lasciando che l’annuncio guanoso sia pubblicato? E, a maggior ragione, perché si dovrebbe impedire a un social network di rifiutare il suo ruolo di megafono, imponendo una sorta di neutralità cui non è costretto alcun altro soggetto?
Non a caso, la minaccia di Trump nei confronti di Twitter e c. è stata sempre quella di rimuovere un privilegio presente nella normativa statunitense (assente in quella europea, se non a particolari condizioni), ossia quello della esenzione dalla responsabilità per i contenuti immessi dagli utenti.
Capite? Chi si lamenta della presunta censura ha minacciato più volte di introdurre una forma subdola di censura, che lascerebbe i soggetti della rete esposti alle azioni risarcitorie.
Ecco di che pretestuosità stiamo parlando.
Allora, basta parlare di censura. Parliamo di responsabilità della piattaforma su cui ci troviamo, e imponiamole delle scelte (che per la verità sta già facendo) di carattere etico: contro le fake news, contro l’odio e a favore della salute. Se ciò porta (e non può non portare) come logica conseguenza l’oscuramente di un Presidente che sparge false notizie, soffia sulla fiamma dell’odio, propala notizie antiscientifiche, non possiamo che esserne contenti.
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