La scuola cattolica la conosco bene. Sono ricordi di mezzo secolo fa, ma ancora vividi. Ricordi che fanno riaffiorare emozioni antiche di rabbia, frustrazione, paura, desiderio di vendetta, tutta roba che alla fine non può che sfociare nella violenza.
Sono entrato nel più rinomato collegio cattolico milanese a 16 anni, fortunatamente da esterno, perché ero stato bocciato in quarta ginnasio pubblica. Mio padre riteneva che l’ambiente sessantottino a cui mi ero immediatamente iscritto (con la chitarra sempre al collo) avrebbe potuto corrompermi definitivamente (a margine: anche il miglior padre del mondo, com’era il mio, ogni tanto fa una cappellata) e decise di piazzarmi tra i preti.
Ci volle poco a capire che ogni angolo del prestigioso collegio puzzava di prevaricazione, discriminazione, molestia e che mi conveniva imparare in fretta a difendermi. Mi iscrissi a una palestra di karate, dopo pochi mesi cominciai a fare gare e soprattutto a scazzottarmi nelle strade e nei quartieri malfamati, per provare la realtà. Presi un sacco di botte, mi procurai infiniti lividi e occhi neri, ma imparai a difendermi.
L’abitudine alla rissa mi venne buona due volte. Una fu con il rettore (pedofilo, poco dopo allontanato) a cui levai la voglia di provarci con me e con gli altri. Un’altra fu con un bullo dell’ultimo anno, figlio di latifondisti della bassa padana, Rolex Daytona d’oro massiccio per i sedici anni, Alpine Renault A310 per i 18, alto e sovrappeso. Lo chiamavamo “il multicolore” per come si vestiva e il suo principale divertimento era sbattere i più piccoli contro il muretto di santa Maria delle Grazie con una spallata, farli cadere e picchiarli a colpi di cartella. Quando si trovò a terra in un lago di sangue che sgorgava a fontana dal naso rotto decise di piantarla.
Col successivo rettore (non pedofilo, ma stronzo) non ebbi bisogno di menare menare, oltre che stronzo era viscido e pavido: la minaccia in privato fu sufficiente, anche perché mi ero fatto la fama di quello che quando si ribellava ci dava dentro (i preti erano perfettamente consapevoli di quanto accadeva, il “bullo” a cui avevo rotto il naso era uno dei loro protetti e sapevano che ero stato io a fargli calare le arie).
Furono cinque anni di guerrilla e per questo fui punito: alla maturità il membro interno venne a suggerirmi un errore nella versione di greco, poi venni bullizzato verbalmente anche all’orale, nonostante fossi preparato decentemente. Fui promosso (non ne potevano più di tenermi lì), ma con la sufficienza minima, per pura ripicca, alla faccia dei soldi che mio padre aveva versato in quegli anni nelle casse del collegio per farmi educare.
La scuola cattolica mi iniettò la violenza e ancora oggi, di tanto in tanto, mi viene l’impulso di prendere per il bavero il banale pirla che prova a investirmi sulle strisce e cambiargli i connotati. La tensione a cui devo resistere, fortissima, viene da quegli anni e da quei preti disgraziati. È un’eredità che mi porto dentro e devo combattere per non rischiare di cedere alla barbarie.
Per questo non andrò a vedere il film “La scuola cattolica“: in qualche modo ne sono stato protagonista.