
Continua il racconto della vita di Sandro Pertini, scritto dall’intellettuale che si presenta su Bluesky con lo pseudonimo dannunziano di Andrea Sperelli. Questa è la seconda parte, dedicata al percorso politico che portò il guerriero Sandro, già esule a Ventotene, fino al Quirinale.
A Roma il 20 giugno 1945 viene formato il primo governo guidato da Ferruccio Parri. Il leader del Partito d’Azione prende anche il Ministero degli Interni mentre Pietro Nenni e Manlio Brusio sono vice-presidenti, Alcide De Gasperi è Ministro degli Esteri, e Palmiro Togliatti va alla Grazia e Giustizia. Sandro Pertini non compare nel gabinetto poiché è segretario del PSIUP dell’Alta Italia. In tale veste, appena costituito il nuovo governo, dichiara alla stampa: «Noi socialisti siamo insoddisfatti. Accettiamo il gabinetto per amore di concordia ma lotteremo affinché la classe lavoratrice ottenga la direzione politica del Paese, posto cui ha diritto».
Si erge a protagonista durante l’assemblea costituente nella quale partecipa attivamente alla stesura degli articoli sui diritti civili nel Titolo I e si oppone fermamente (ma senza successo) all’amnistia voluta da Palmiro Togliatti nei confronti dei fascisti.
Dopo il termine dei lavori PSIUP e partito comunista si prodigano per fusione. Va detto subito che di quella ipotesi Sandro Pertini fu sempre nettamente contrario. Nenni, invece era propenso. Non portò in direzione l’argomento, contrariando Giuseppe Saragat che da quel momento diffiderà di lui fino alla scissione.
Sandro Pertini si districa male in questo arcipelago di ambizioni soggettive. D’altronde anche egli caratterialmente non ci va per il sottile: la sua differenza è che per realizzare le sue idee interne al partito non organizzerà nessuna “corrente”. Quanto gli è dovuto deriva da ciò che ha fatto sul campo e, se non fosse per la tutela che Nenni gli dà in ragione delle lotte svolte fianco a fianco la sua figura sarebbe diventata del tutto secondaria. Il resto, poi, lo farà l’immagine di simpatia al “socialista galantuomo” vecchia maniera che si sa cucire addosso. Tuttavia egli paga questa indipendenza con l’assoluta mancanza di potere decisionale nel partito. In questo senso appare il netto contrario di Rodolfo Morandi che conforma l’apparato del PSIUP a quello del Partito Comunista Italiano.
Varata la Costituente, nata la Repubblica col primo referendum istituzionale, l’Italia si avvia alle prime elezioni politiche del 18 aprile 1948. Finora il governo del Paese è stato governato sostanzialmente dall’equilibrio dei partiti “resistenziali” Democrazia Cristiana-Partito Comunista Italiano-Partito Socialista.
Nel XXV Congresso che decide di affrontare le elezioni venture nel Fronte Democratico Popolare social-comunista, Pertini si prodiga generosamente per evitare la separazione. Per giorni si pone al centro delle due fazioni; non perde incontro per la sua opera di mediazione. Nulla da fare, la forza delle cose porta diritto alla scissione. Essa sarà chiamata di “Palazzo Barberini” dove si raccolgono i fedeli di Saragat che danno vita al PSLI (Partito Socialista Lavoratori Italiani). Pur se col cuore stia dalla loro parte Pertini, constato l’insuccesso della visita, torna da Nenni e Lombardi, nel partito che prende il nome Partito Socialista Italiano. Senza la “Destra” riformista i filo-comunisti hanno campo libero nel Partito Socialista Italiano. Il partito dopo la scissione è allo sbando.
Sandro Pertini esce comunque trionfatore dalla vicenda essendo stato l’unico dirigente di vertice ad aver visto chiaro e tentato con ogni mezzo di evitare la divisione del partito.
Dopo il 18 aprile 1948 il dopoguerra è finito: inizia la storia repubblicana italiana. Un’altra storia che Sandro Pertini attraverserà da gigante delle istituzioni (Presidente della Camera, poi della Repubblica). L’Italia è una democrazia bloccata dal difficile equilibrio tra maggior partito dell’opposizione, il Partito Comunista Italiano, anti-sistema e schierato contro l’Occidente e la democrazia Cristiana partito di maggioranza relativa strettamente legato agli USA. Un sistema inagibile alla alternanza di governo. Il Partito Socialista Italiano è ancora fermo su posizioni frontiste. Animatore del processo di autonomia è ancora Sandro Pertini che riprende, sia nel partito che verso Pietro Nenni, la tessitura contro il famigerato patto di unità d’azione
L’attentato alla mattina del 14 luglio 1948 contro Palmiro Togliatti rivela la riserva rivoluzionaria latente nella periferia del PCI. A Genova, Milano, Torino, in Emilia e Toscana (l’episodio più cruento a Badia San Salvatore dove viene sgominata la caserma dei carabinieri), si traduce in una vera e propria ribellione che solo gli ordini ferrei dall’alto, ed a cui il partito è abituato a obbedire, evitano il peggio.
Nel Partito Socialista Italiano i due anni, dalla sconfitta del 18 aprile alla guerra di Corea, passano attraverso la ricostruzione organizzativa del partito che tra scissione e
dissanguamento elettorale era arrivato quasi allo sfascio. Abbozzato il primo cenno di distacco dal Partito Comunista Italiano il primo problema è quello di cassa: mancano i soldi. Il Partito Socialista Italiano è fuori dallo schema di sovvenzioni americane per la DC e sovietiche per il PCI: o sfocia verso il governo o va all’estinzione. Il PSI, sclusa la Sinistra di Tullio Vecchietti e Lelio Basso ed i socialisti della CGIL, è sempre più insofferente all’esaltazione demagogica degli operai che dovrebbero servire come testa d’ariete contro il governo.
Negli anni ‘60 Nenni, Pertini e Lombardi non accettano più i condizionamenti pro-comunisti della Sinistra interna. Così nasce, alla fine del 1963, il primo governo Moro a partecipazione organica dei socialisti. L’ingresso nel governo scatena nel Partito Socialista Italiano appetiti e ambizioni. La spartizione del “sottogoverno” procura lacerazioni personali, lotta accanita per contendersi le “poltrone” in palio di presidenze e consigli di amministrazione. La centralità della posizione socialista consente all’apparato di distribuirsi assessorati, sindaci, presidenze e seggi delle aziende comunali. Questo attira al Partito Socialista Italiano una pletora di avventurieri della politica.
Sandro Pertini condanna queste spartizioni di potere e, nonostante non partecipi alla vita poltica delle sezioni, conosce bene il corpo del partito; forse è proprio per questo che non vuole una sua
corrente con le inevitabili questioni di finanziamento, compromessi, lotte personali. A queste cose egli non è tagliato. Parla nelle piazze, nei convegni, congressi, onde mantenere viva la sua popolarità. I suoi occhi vedono la degenerazione del partito, ma non può farci nulla. Pertini in questi difficili anni viene eletto Presidente della Camera e si dimostra, come sempre, difensore dei valori della resistenza e dell’antifascismo.
Nel 1969, poco dopo la strage di Piazza Fontana si reca a Milano dove si rifiuta di incontrare il Questore Marcello Guida che fu direttore del confino di Ventotene: gesto che ebbe grande rilievo politico e mediatico.
Nel 1968, dopo l’invasione sovietica di Praga, disse: «Sapesse che diverbio ho avuto con l’ambasciatore sovietico pei fatti di Praga! Voi ristabilite l’ordine coi carri armati, gli ho detto, proprio alla maniera dei fascisti che lo ristabilivano con le baionette».
Durante il “caso Moro” fu un sostenitore intransigente della linea della fermezza anche contro il suo stesso partito che proponeva invece una soluzione umanitaria.
A fine Giugno 1978 iniziarono gli scrutini per l’elezione del Presidente della Repubblica. Il
successore di Leone non poteva essere un democristiano e, dopo ben 15 scrutini, con una maggioranza mai superata dell’82,3% Sandro Pertini salì al Quirinale.
La sua elezione apparve subito un importante segno di cambiamento nella scena politica italiana sia per la sua storia straordinaria, sia per il suo carisma e, soprattutto, per il suo passato da combattente per la libertà. Anche se fu il primo Presidente a conferire l’incarico di Presidente del consiglio a non democristiani ed, in particolare, a Bettino Craxi, si ricorda come lo rimandò a casa con l’invito “a vestirsi con maggiore decoro” quando si presentò al Quirinale indossando un paio di Jeans.
La “Repubblica pertiniana” come la chiamò il portavoce del Quirinale, si caratterizzò per un utilizzo estensivo del Potere di esternazione che divenne, nel tempo, elemento fondante di tutte le presidenze successive. Tutti si ricordano il suo “Fate presto” dopo il terribile terremoto dell’Irpinia.
Durante il settennato emersero con forza la fermezza e lo spessore umano del suo carattere. Il suo volto sofferente accompagnò la prima diretta televisiva su un fatto di cronaca a fianco della mamma di Alfredino Rampi sul bordo del pozzo di Vermicino.
La gioia incontenibile per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio del 1982 in Spagna lo fece esultare in tribuna rompendo ogni vincolo di protocollo.
A Washington baciò la bandiera degli Stati Uniti prima di sedere a colloquio con Reagan memore dell’aiuto determinante degli USA liberazione dell’Europa occupata dai nazisti.
«Lo porto via con me a Roma. Lo porto via, come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta» furono le sue parole sul letto di morte di Berlinguer, e le sue lacrime sul feretro del segretario comunista furono il compimento dell’unione di due generazioni di militanti e combattenti.
Un leader, Pertini, antico e moderno nel contempo. Legato ai valori della resistenza, profondamente rispettoso delle istituzioni democratiche che aveva contribuito a far risorgere ma anche modernissimo, capace di cogliere l’incredibile forza dei media che nel futuro avrebbero svolto un ruolo determinante nell’agone politico.
Voglio concludere questo racconto con le parole di Oriana Fallaci che lo descrivono meglio di qualunque altro commento: «Nessuna scoperta da annunciare su questo gran vecchio dilaniato dalle dolcezze e dai furori, collerico, impertinente, elegante di dentro e di fuori, con quelle giacche sempre impeccabili, quei pantaloni sempre stirati, quel corpo minuto, fragile, che nemmeno le
legnate degli squadristi riuscirono a frantumare. È noto che ama la moglie, i quadri d’autore, le poesie, la musica, il teatro, la cultura, che è un uomo di cultura e uno dei pochissimi politici di cui possiamo andar fieri in Italia».
La prima parte del racconto è qui.