Moroni, la vera storia
di Marco Travaglio
da l'Unità del 2 agosto 2004
Premesso che quanto è accaduto l’altroieri alla Camera è roba da squadristi. Premesso che Chiara Moroni è in Parlamento perché l’hanno eletta e ha il diritto di dire ciò che crede senza essere insultata. Premesso che chi ha malmenato Renzo Lusetti in aula non dovrebbe metterci piede mai più. Ecco, premesso tutto ciò, forse, il modo migliore per ricordare Sergio Moroni, l’ex tesoriere del Psi lombardo morto suicida il 2 settembre ’92 nella sua casa di Brescia dopo un avviso di garanzia per finanziamento illecito, è quello di rileggere la sua lettera di addio al mondo, inviata all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano.
In quella lettera – diversamente da quel che ha detto la figlia Chiara l’altro giorno alla Camera e hanno scritto ieri vari giornali - non compariva mai la parola «innocenza». Perché Moroni non si proclamava affatto innocente, ma partecipe di un sistema illegale, pur sostenendo che così facevan tutti e che le inchieste (com’era inevitabile, del resto) colpivano soltanto alcuni (quelli raggiunti da prove o chiamati in causa dai complici), in una «ruota della fortuna» che «assegna a singoli il compito di vittime sacrificali».
Premesso che non aveva «mai approfittato di una lira», Moroni scriveva: «Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non possono essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole. Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale… Ho commesso un errore. Accettando il sistema, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questa era prassi comune…». E che altro significa «accettare di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito», «ricevendo contributi e sostegni per il partito», se non aver commesso il reato di finanziamento illecito dei partiti, istituito dal Parlamento italiano con la famosa legge del 1974?
Non è nemmeno vero che, dopo la sua morte, Moroni sia stato assolto. Anzi. La sua posizione fu stralciata per «morte del reo». Ma nel 1994 la sentenza del Tribunale di Milano a carico dei suoi coimputati, nel processo sulle tangenti per le discariche, appurò quanto segue: «Risulta accertata e pienamente provata la materialità dei fatti» e cioè che Moroni aveva ricevuto «circa 200 milioni in totale nelle sue mani… in una cartellina tipo quelle da ufficio, avvolta in un giornale». Sentenza poi confermata in appello e in Cassazione.
Ai funerali, Bettino Craxi tentò di scagliare il cadavere di Moroni contro il pool Mani Pulite, tuonando: «Hanno creato un clima infame». Gli rispose il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio: «Il clima infame l’hanno creato loro. Noi ci siamo limitati a scoprire e perseguire fatti previsti dalla legge come reati». E fu proprio un dirigente socialista arrestato per mesi con l’accusa di varie mazzette, Loris Zaffra, a indicare i colpevoli di quel clima infame. Che non erano i magistrati. E nemmeno i giornalisti. Erano i partiti di Tangentopoli, che scaricavano ignobilmente i loro uomini che via via venivano presi con le mani nel sacco, trattandoli da «mariuoli» isolati e fingendo di non conoscerli. Per questo - spiegò Zaffra - Moroni si tolse la vita. La sua intervista a Marcella Andreoli, su Panorama del 24 gennaio ’93, merita di esser letta dai tanti smemorati di oggi: «Venivo guardato – racconta Zaffra, appena scarcerato senza aver parlato - come un essere strano, miracolato, proprio perché ero stato anche a San Vittore… Avevo l’impressione di essere fuori dal mondo, di essere l’unico rimasto a presidiare un palazzo deserto. Mi sono sentito in una trincea vuota, e dopo tanti giorni di carcere ho capito che stavo combattendo una battaglia persa in partenza. La reazione del sistema era assolutamente ipocrita. Aveva ragione il povero Sergio Moroni, quando nella sua lettera scritta prima del suicidio aveva parlato di “ruota della fortuna”: se sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cerchio delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile».
Complotti della magistratura? Macché: «Ero in carcere quando Craxi scrisse quei tre corsivi contro il pool Mani Pulite e il giudice Di Pietro. Ma Craxi sbaglia… I magistrati non estorcono false confessioni: alla fine l’imputato racconta la verità. Sarà amaro ammetterlo, ma è così». Oggi Zaffra è un dirigente di Forza Italia. Vogliamo credere almeno a lui?
Possibile che l’altro giorno, alla Camera, nessuno abbia sentito il bisogno di alzarsi per ricordare cos’era Tangentopoli e chi erano le sue vittime (non i ladri, ma i derubati)? Possibile che nessuno rammenti i costi della corruzione, stimati dal Centro Einaudi di Torino in 15-20 mila miliardi di lire all’anno, per non parlare del boom del debito pubblico? Possibile che nessuno si ribelli all’ultimo colpo di spugna su Tangentopoli, il più insidioso, quello del revisionismo storico? Possibile che, a 20 anni dalla morte di Berlinguer e a 24 dalla sua intervista a Scalfari sulla «questione morale», destra e sinistra regalino a un pugno di squadristi in camicia verde la bandiera della denuncia e della lotta alla corruzione? Se proprio non trovano le parole, si rileggano la lettera di Moroni. O magari, visto che tanto lo rimpiangono, il discorso di Craxi alla Camera il 3 luglio ’92: «All’ombra di un finanziamento irregolare e illegale ai partiti e al sistema politico fioriscono e s’intrecciano casi di corruzione e concussione… Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica… I casi sono della più diversa natura e spesso sconfinano con il racket malavitoso». Questo, cari signori, non è Di Pietro. È Craxi. Vogliamo credere almeno a lui?