«L’impiccagione dell’ex raìs un regalo degli Usa all’Iran»
di Umberto De Giovannangeli
«L’uccisione di Saddam Hussein segna l’inizio della fine di uno Stato iracheno unitario. L'impiccagione dell'ex raìs apre la strada non solo a una nuova ondata di violenze ma alla divisione etnica dello Stato. L'impiccagione di Saddam senza un punto di non ritorno nello scontro tra sciiti e sunniti. E forse non solo in Iraq». A sostenerlo è il professor Nabil el Fattah, già direttore del Centro di Studi Strategici di Al-Ahram (Il Cairo), tra i più autorevoli analisti arabi dell’Islam radicale. «Sul piano dei rapporti di forza regionali - osserva el Fattah - non vi è dubbio che l’eliminazione di Saddam Hussein è un punto a favore dell'Iran e uno schiaffo all'Arabia Saudita. Riyad potrebbe reagire sostenendo, con denaro e armi, la resistenza sunnita irachena. Di certo, l’esecuzione di Saddam contribuirà a moltiplicare la violenza in Medio Oriente e a destabilizzare ulteriormente questa tormentata regione».
Cosa è stata, a suo avviso, per l’Iraq, l’impiccagione di Saddam?
«Direi senz’altro un episodio, forse il più eclatante, della guerra civile che sta marchiando il Paese. Non parlerei di giustizia né di vendetta. D'altro canto, dentro una guerra civile è impossibile trovare traccia di giustizia».
«Giustizia è stata fatta», così ha affermato George W.Bush. Come leggere questa affermazione dal punto di vista arabo e musulmano?
«Vede, gli Stati Uniti dovrebbero chiedersi il perché a gioire con la stessa enfasi dell'impiccagione di Saddam sia stato l’Iran. Dovrebbero interrogarsi e riflettere sul "capolavoro" di una strategia di guerra che avrebbe dovuto aprire una stagione di democrazia in Iraq, assestare un colpo mortale ad Al Qaeda, isolare lo Stato canaglia iraniano e rafforzare i leader arabi moderati…».
E invece?
«La realtà è sotto gli occhi di tutti: l'Iraq è nel pieno di una guerra civile; la rete terroristica denominata Al Qaeda si è estesa ai quattro angoli del pianeta, restando peraltro ben radicata nella "trincea" irachena; Teheran è il riferimento del potere sciita iracheno, di Hamas in Palestina, di Hezbollah in Libano, e i leader arabi moderati si sentono accerchiati da un fondamentalismo che si alimenta da un livore verso l’Occidente che cresce di giorno in giorno».
Se l’Iran è il vincitore, chi è il Paese del mondo arabo che ha più da temere dalle ricadute dell’impiccagione di Saddam?
«Molti pensano a Egitto e Giordania, i Paesi-guida del cosiddetto fronte arabo moderato, ma io guarderei in questo momento soprattutto all'Arabia Saudita. In un mondo arabo e musulmano che si nutre di simboli, l'aver scelto di impiccare Saddam nel giorno dell'Aid el Kebir - la "Grande Festa" per i musulmani - è già una sfida al Paese-custode dell'ortodossia islamica. Ma non c'è solo questo. Riyad interpreta l'eliminazione di Saddam come la consacrazione in Iraq di un potere sciita ritenuto ormai satellite dell'Iran…».
E questa convinzione cosa potrà determinare sul campo?
«Il sostegno più deciso dell’Arabia Saudita ai gruppi della resistenza sunnita iracheni. Un sostegno che finirà per alimentare ulteriormente la guerra civile in atto in Iraq».
Come interpreta la reazione di Israele all'esecuzione di Saddam?
«Al di là delle frasi di circostanza sulla scomparsa di un "nemico mortale", del tiranno che nel 1991 bersagliò Tel Aviv con i suoi missili, a me pare che il segno prevalente sia quello della preoccupazione. Sentimento politicamente fondato, perché non sfugge ai governanti israeliani che a capitalizzare la morte di Saddam è oggi il nemico numero uno di Israele: l'Iran. Una preoccupazione che cresce con la consapevolezza che c'è solo un terreno su cui lo scontro sciiti-sunniti tende a ricomporsi, come dimostra l'alleanza tra Hamas (sunnnita) e Hezbollah (sciita): e questo terreno è la Palestina e la lotta armata contro il comune "nemico sionista". Una lotta armata che oggi può contare su un nuovo "martire": Saddam Hussein».