Nel buio di una nave
«Nel porto di Ravenna, il primo settembre scorso, un ragazzo di 22 anni è morto schiacciato da un rimorchio sovraccarico, all'interno della stiva di un traghetto. Era il suo primo giorno di lavoro. Aveva un contratto con un'agenzia interinale...
Tuttavia, molte cose sono cambiate all'interno dei cantieri portuali. Certo, a Ravenna non si lavora più come vent'anni fa, le disposizioni per la sicurezza sono largamente rispettate, si sono perfezionate le procedure di coordinamento fra i vari soggetti preposti al controllo e ridotti i casi di reperimento irregolare della manodopera. Ma chi effettua i controlli fa capire che ci sono tragedie che non succedono per caso».
Grazie alla segnalazione di un lettore di OMB oggi, dopo 20 anni, ci occupiamo dell'incidente della Mecnavi del 13 marzo 1987 in cui 13 uomini morirono soffocati nella stiva della gasiera Elisabetta Montanari ferma nel porto di Ravenna. “Nel buio di una nave”, Bradipolibri 2007, 112 pagine, 10 euro di Rudi Ghedini è uscito in questi giorni e ci racconta questa storia che non vogliamo vada dimenticata, ne parliamo con l'autore.
MM: Rudi, in questi giorni è uscito il tuo libro, dieci anni di lavoro per non dimenticare l'orrore di un incidente che appare, se possibile, ancor più tragico proprio perché avvenuto nella circostanza più incredibile, con la nave ferma in porto.
RG: La nave era stata affidata al cantiere Mecnavi, il più grande cantiere privato dell'Adriatico. Sulla nave venivano effettuati lavori di carpenteria e di pulizia: alcune lamiere del doppiofondo, destinato a ospitare il combustibile, presentavano un avanzato stato di corrosione e dovevano essere sostituite. Contemporaneamente, i cosiddetti “picchettini” rimuovevano la sporcizia accumulata nelle stive, sotto i serbatoi; usavano stracci, palette, spazzole e raschietti per rimuovere la ruggine e i residui di combustibile; ancora oggi, si lavora così.
La cronaca della catastrofe è simile a una reazione a catena: innescato dalla scintilla di una fiamma ossidrica, un piccolo incendio surriscaldò il rivestimento dei serbatoi di combustibile, che gocciolò sul fondo della stiva e prese fuoco a sua volta. Dalla combustione si svilupparono ossido di carbonio e acido cianidrico. L'aria divenne presto irrespirabile. L'autopsia certificò la morte per edema polmonare causato da inspirazione di sostanze tossiche, dopo una lunghissima agonia. Morirono “come topi”, disse il cardinale Tonini.
Una tale sproporzione fra la causa scatenante e gli effetti appare quasi inconcepibile. Invece, divenne presto chiaro che si trattava di una “tragedia annunciata”, si scoprirono situazioni conosciute da pochi: la piaga del lavoro nero, il caporalato, il disprezzo delle più elementari norme di sicurezza, l'arroganza di imprenditori - i fratelli Arienti - che non tolleravano il sindacato nella loro azienda.
MM: La memoria di un fatto così grave generalmente ha molto a che fare con l'attualità, con la possibilità che un fatto del genere possa accadere di nuovo; tu ti sei continuato ad occupare di sicurezza, è cambiato qualcosa da vent'anni a questa parte? Credi che oggi un incidente del genere possa succedere di nuovo?
RG: Nel porto di Ravenna, il primo settembre scorso, un ragazzo di 22 anni è morto schiacciato da un rimorchio sovraccarico, all'interno della stiva di un traghetto. Era il suo primo giorno di lavoro. Aveva un contratto con un'agenzia interinale...
Tuttavia, molte cose sono cambiate all'interno dei cantieri portuali. Certo, a Ravenna non si lavora più come vent'anni fa, le disposizioni per la sicurezza sono largamente rispettate, si sono perfezionate le procedure di coordinamento fra i vari soggetti preposti al controllo e ridotti i casi di reperimento irregolare della manodopera. Ma chi effettua i controlli fa capire che ci sono tragedie che non succedono per caso. Capita ancora di non trovare estintori, luci di emergenza, cartelli indicatori per le vie di fuga… Molti imprenditori risparmiano sulle spese per la sicurezza, e la pratica dei subappalti fa sì che molti lavoratori siano sprovveduti, impreparati, ignari dei pericoli che corrono.
MM: 1250 morti nel 2006, già 201 nel 2007 (fonte Articolo 21). Quanto questi dati sulle morti sul lavoro in Italia sono a tuo avviso riconducibili al sistema di appalti e subappalti? Mettendoci per una volta anche dalla parte delle imprese: si ha l'impressione che la sicurezza sia considerata un costo troppo oneroso, ma è davvero così difficile in Italia lavorare in sicurezza?
RG: Una cultura della prevenzione deve innanzitutto respingere l'obiezione che certi costi sarebbero insostenibili. È vero il contrario: il costo sociale della sicurezza è nettamente inferiore a quello provocato dagli incidenti.
Ovunque vi siano appalti e prevalga la logica del massimo ribasso, è pressoché sicuro che si speculi sulle norme di sicurezza e sul lavoro irregolare. Per esempio, nel caso della Mecnavi, anche se la percezione del pericolo fu pressoché immediata, le vittime non avevano scampo, non disponevano di alcuna strategia di sopravvivenza: era scarsissima la loro conoscenza dell'ambiente di lavoro, non avevano ricevuto alcun addestramento.
È evidente che l'obiettivo della sicurezza viene complicato dalla frammentazione delle imprese. In molti cantieri è difficile capire chi lavora per chi. Fino a situazioni limite come quella riscontrata nell'ottobre 2006 in un grande cantiere autostradale, dove gli ispettori hanno identificato lavoratori dipendenti da 200 aziende diverse.
MM: Il Presidente Napolitano è da sempre molto sensibile al tema della sicurezza sul lavoro, non credi che sarebbe giusto chiedere a lui di farsi promotore di una giornata nazionale sulla sicurezza contro le morti bianche?
RG: Mi pare che Napolitano abbia voluto caratterizzare la sua presidenza per la costante attenzione a questo tragico fenomeno. Lo ha fatto, evitando i diplomatismi, ha detto che le principali cause degli incidenti sono la precarietà e la mancanza di garanzie. Ha affermato che “gli infortuni sul lavoro sono una piaga da estirpare, non un prezzo inevitabile da pagare… I minori e gli immigrati sono le vittime più colpite da questo sistema… I controlli vengano compiuti sistematicamente”. Ripeto, è sul sistema dei controlli che l'azione del governo gioca molta della sua credibilità e della sua efficacia.
Ogni giorno verifichiamo che gli incidenti sul lavoro ottengono scarso rilievo sui mezzi di comunicazione. Non fanno notizia. Nel suo piccolo, il mio libro cerca di attirare l'attenzione su questo problema, e so che ci sono proposte del Governo per rendere più “visibile” il lavoro nei programmi della RAI.
MM: A me sembra che questa sia una guerra che fa sempre più morti tra gente senza nome, gente che non può contare su qualcuno pronto a battersi pubblicamente per loro, perché spesso sono lavoratori stranieri.
Stranieri, non sindacalizzati, che non votano, non fanno lobby e non fanno notizia.
RG: All'epoca, quei lavori li svolgevano ragazzi come me, miei coetanei; per questo, forse, la vicenda del porto di Ravenna l'ho vissuta come un fatto personale. Oggi, a scendere nei doppifondi, in quella specie di miniera che si nasconde in certi angoli del porto, sono gli extracomunitari. Ho voluto ricordare lo stupore davanti alla scoperta di come lavoravano i picchettini, le condizioni di sfruttamento e di insicurezza cui erano sottoposti. Nessuno immaginava che nella civilissima Ravenna si potesse lavorare in quel modo, con una tale illegalità diffusa. Accanto agli incidenti sul lavoro sopravvivono figure retoriche decisamente fuorvianti: quante volte ci è capitato di sentire la parola strage associata a fatalità? Ecco, nel caso Mecnavi, l'equivalenza va immediatamente rigettata. Ciò che è accaduto si presenta come una profonda, intollerabile, odiosa ingiustizia. Con una lunga serie di colpevoli: gli imprenditori, i subappaltatori, chi rilasciò le autorizzazioni, chi non vigilò come avrebbe dovuto.
MM: Davvero non se ne sa abbastanza, ma i dati relativi alle morti sul lavoro in Italia sono i numeri di una guerra. Tuttavia, una guerra che non sembra colpirci, non riempie le piazze, non muove bandiere, anche tra i Parlamentari e i Senatori di sinistra che in altre circostanze fanno della loro coscienza una spada da brandire a tutto il Paese, perché?
RG: Sono lontani i tempi in cui ambiente e condizioni di lavoro erano priorità politiche. Mi pare evidente che il lavoro manuale abbia perduto significato nella scala dei valori del Ventunesimo secolo… Non so trovare parole politicamente più dense, per descrivere lo strazio che si rinnova quando qualcuno perde la vita lavorando, di quelle pronunciate da monsignor Tonini nell'omelia del 16 marzo: “C'è un dolore che dovrebbero imparare gli statisti che costruiscono la società. Da una parte c'è un progresso folle della tecnologia e dall'altra c'è un pensiero che svaluta la vita umana. Non è vero che il mondo del lavoro sia pacifico. Dalla stiva di quella nave nasce una denuncia: l'umanità sta distruggendo i tesori della propria ricchezza; stiamo perdendo il confine tra il bene e il male”. Quella di Tonini era un'analisi senza ipocrisie. Identificava l'origine della tragedia nella ricerca del massimo profitto, nel dominio incontrastato dell'economia su ogni aspetto della vita. Ma non mancava di evidenziare il cedimento, culturale prima che politico, di coloro che storicamente avevano saputo rappresentare il mondo del lavoro. Se la sinistra ha ancora un senso, è da qui che dovrebbe ripartire. Dai diritti di chi lavora. Dalla dignità del lavoro. Dal trovare insopportabile la persistenza di simili ingiustizie.
MM: Rudi ti ringrazio moltissimo.
Se questa sera siete dalle quelle parti Rudi Ghedini presenta il suo libro alle 20.30 al Centro Universitario di Bertinoro.