Morire di lavoro

Quest'anno il primo maggio è stato l'occasione in tutta Italia per parlare di sicurezza sul lavoro. A Venezia, in Campo san Barnaba, se ne è discusso a partire dal racconto di un fatto, la storia della strage della Mecnavi di Ravenna, la più grande tragedia del lavoro che il nostro paese abbia conosciuto, per iniziativa delle sezioni Ds di San Polo e Dorsoduro e dal Nuovo Circolo 1° maggio. A discutere con Rudi Ghedini, autore del libro “Nel buio di una nave”, si sono trovati il senatore Felice Casson e Diego Gallo, già segretario regionale della Cgil del veneto.
Il racconto di una storia successa vent'anni fa è stata l'occasione per ricordare i tredici uomini morti nella stiva della nave Elisabetta Montanari, e soprattutto per riflettere sul fatto che in tutti questi anni i morti sul lavoro non sono mai diminuiti (sono sempre tre, quattro al giorno), così come non sono cambiate le ragioni per cui si muore.
Fretta, contemporaneità di lavorazioni incompatibili, scarsa preparazione del personale, assenza di dotazioni di sicurezza sono solo alcune delle concause dell'incidente della Mecnavi, ma anche le ragioni per cui di lavoro si continua a morire oggi.
Le norme previste dal legislatore per la sicurezza - lo ha sottolineato Felice Casson - sarebbero adeguate, ma si tratta di leggi sistematicamente non rispettate, a cui vanno aggiunte la mancanza di cultura della sicurezza e l'assoluta insufficienza dei controlli.
A complicare le cose la convivenza nei cantieri di lavoratori con diversi regimi contrattuali e gradi di tutela scatena una vera e propria “guerra tra poveri”, in cui talvolta, pur di non perdere il lavoro sono gli stessi operai ad essere omertosi sugli incidenti che avvengono.
Diego Gallo ha ricordato l'esistenza di una vera e propria “aristocrazia operaia” (tra i lavoratori maggiormente sindacalizzati e tutelati) che difficilmente esegue i lavori più pesanti e rischiosi che sono invece il pane quotidiano di interinali, lavoratori occasionali, sub sub appaltatori o di chi lavora direttamente in nero.
Sono i lavoratori a cui capita - ci gela Casson - di essere regolarizzati post mortem per fare passare meno guai ai datori di lavoro.
E quando si lavora al massimo ribasso la prima cosa su cui le imprese cercano di recuperare i ribassi applicati pur di aggiudicarsi le gare è tutto ciò che ha a che fare con la sicurezza, oggi come allora. Sulla Elisabetta Montanari, non c'era nemmeno un'estintore, che all'epoca costava 1500 lire. Era considerato una spesa superflua, così come oggi il fatto di lavorare in sicurezza viene percepito come un onere inutile.
Ma è possibile far passare nel nostro paese un'idea di mercato meno frettoloso e meno brutale in cui lavorare possa essere anche meno pericoloso? Credo si debba trovare il modo per far passare l'idea che lavorare in sicurezza deve convenire a tutti, anche all'impresa, anche a costo di mettere mano alle leggi sugli appalti. Perché se ci affidiamo solo alla nostra capacità di controllori rischiamo di fare la figura di quelli che fanno la guerra con la fionda e che vogliono rincorrere gli aerei a piedi, mentre nei cantieri si continua a morire.
Per finire con un'altra storia allo stesso tempo vicina e lontana: il caporalato. Un ricordo in bianco e nero fino a pochi anni fa, oggi tornato in gran voga, basta fare un salto a Piazzale Roma alle sei del mattino.