C’è chi dice 10, chi dice 11 milioni di euro. Certo sono una bella cifra per costruire il quarto ponte sul Canal Grande, ma pur di vedere affermata anche a Venezia l’esistenza dell’architettura contemporanea 10 milioni vengono ancora stimati una cifra accettabile per la città. I ponti di Santiago Calatrava sono belli, sono leggeri come ali e hanno forme che ricordano la natura, sono come enormi pezzi dello scheletro di giganti preistorici che affiorano dalla terra e dall’acqua nelle città di tutto il mondo. Del quarto ponte sul Canal Grande a Venezia si lavora e si parla (forse si parla più che lavorare) dal 1996, da quando il Comune ha ricevuto in gentile omaggio dal noto architetto uno studio di fattibilità per la costruzione del ponte, del suo ponte.
Architettura per se stessi o per la città degli uomini? Calatrava! Travolto dal suo stesso (aggiungo: antipaticissimo) ego, e dalla continua ricerca esasperata di un formalismo che lo collochi in un panorama architettonico contemporaneo ma che, per quanti sforzi faccia, non riesce a trovare. Le sue strutture sono miraboli, interessanti, e molto anche, mobili, dinamiche. Dovrebbe però rinunciare a fare architettura e partire dall’essere costruttore. Credo che solo cosi potrà arrivare ad essere architetto e togliersi la frustrazione della competizione gaudiana. A Venezia progetta un ponte di cristallo, trasparente, non invasivo e inoffensivo (dice lui), che non ci provi nemmeno a competere con le architetture di Venezia !(dice lui), e poi leggero, ma così leggero da far sprofondare, per dirla alla Brodskij, le incurabili fondamenta. Poi magari attraversandolo scivoleremo tutti col primo strato di umidità, (visto che è di vetro), o avremmo, sinceramente, fatto a meno di una imbarazzante ovovia viaggiante nel ventre di un dinosauro, costruita per ovviare ad un problema non ancora esistente (intendo, il ponte non è ancora costruito, quindi si poteva ovviare…)
Insomma le domande sono: davvero un’opera, ancor prima di essere realizzata può definirsi opera d’arte a cui la società, per cui è stata edificata, deve inchinarsi, sia in termini di costi, monetari e sociali, che in termini di funzionalità? È giusto che a decidere che sia un opera d’arte sia lo stesso architetto e in nome di esso imporla alla città? Ma l’architettura non era un “arte civile”? Ma davvero un’architettura, se non risponde alle esigenze degli uomini, ha diritto di stare nella città?
solo ora vedo questo blog, mi permetto una facile battuta: premesso che è probabile tutto quello che si dice, non credo che sia lo spirito che deve accompagnarci il quale deve essere costruttivo. Essendo in qualche misura coinvolto, posso affermare che i problemi sono molti e non tutti legati a superficialità, ritengo che quell’opera sia un’ottima opera, forse con troppi condizionamenti di ogni tipo, non ultimi quelli burocratici… se lasciassero lavorare le persone coinvolte forse si sarebbe fatto e/o si farebbe in un modo diverso. Una soluzione facile facile era comunque commissionare all'artista anche la realizzazione dell'opera, quante polemiche in meno, cordialità Giovanni