Il piagnisteo
Il signor Franco Fronzoli ha scritto a il Secolo XIX (la lettera è uscita ieri nella pagina "ditelo al direttore") per sottolinea con soddisfazione la dinamicità del neopresidente Nicolas Sarkozy, pur dichiarando di "aver tifato" Ségoléne Royal. Si potrebbe ritenere che è finita l'epoca della politica vissuta come il calcio, ma non credo che sia pertinente. E' pertinente invece una condizione di infelicità o di malessere. Nelle pagine di questi giorni dei giornali italiani a proposito della Francia e delle prime decisioni del neopresidente Nicolas Sarkozy, soprattutto all'indomani della composizione del governo, si aggira una strana sensazione: quella ella capacità di modificare la realtà, di condizionare il presente, in breve di creare qualcosa, a differenza di ciò che accade qua, da noi dove tutto sembra molto stagnante.
Nell'insistenza con cui sia coloro che si atteggiano a tifosi del neoeletto (Giuliano Ferrara, p.e. su "Il Foglio di sabato scorso) sia coloro che mettono in guardia da un fuoco pirotecnico di effetti, destinato nel medio periodo a saltare per aria, comunque a mostrarsi del tutto artificiale - e forse artificioso - (Bernardo Valli su "Repubblica " a di sabato) in un qualche modo trasuda il paragone implicito con un paese - il nostro - che invece non ce la fa, "tira alla giornata" sia nel campo del governo come in quello dell'opposizione, non sfida il suo tempo, ma complessivamente aspetta. Le elezioni amministrative in questo clima più che un test sembrano per questo la riproposizione delle tante beghe, baruffe locali senza che si cerchi, al di là dei problemi specifici, di trovare una risposta a una condizione generalizzata di malessere.
Usciamo da una settimana in cui tanto l'opposizione come il governo hanno dichiarato con segni opposti un bilancio (per i primi fallimentare, per i secondi lusinghiero) di un anno di centrosinistra in cui non si intravede né in chi critica né in chi esprime il governo la convinzione che ci sia una prospettiva di medio-lungo periodo. Il tema non è la capacità di tenuta o meno delle rispettive coalizioni politiche, oppure la durata della legislatura. Il problema è il profilo della proposta, l'asse intorno a cui costruire un progetto che affermi e inquadri un possibile modello di sviluppo e di crescita che stia dentro il quadro europeo.
Proprio perché un profilo di cambiamento non si costruisce semplicemente evocandolo o imprimendo un ritmo frenetico a un sistema lento, prendendo in carico alcune condizioni attuali che marcano quella lentezza, il problema non è né invocare l solito tradimento della politica, né predicare una modernizzazione fatta di molti progetti in cui i sogni prevalgono sulle condizioni concrete.
E' probabile che da parte di alcuni venga presentato lo snellimento delle forme della rappresentanza, l'abolizione o l'abbattimento drastico dei costi della politica (dalle auto blu al numero dei parlamentari,…) come l'inizio dei una rivoluzione che ci porterà verso futuri radiosi. Spendere meno, o avere meno costi consente di avere più risorse, ma poi il problema è che cosa ne facciamo, con quali parametri si sceglie di reinvestire (da questo punto di vista tutta la discussione sul destino del "tesoretto" non è forse istruttiva?)
Non è la rivoluzione della contabilità che produrrà un cambiamento di registro. In ogni caso puntare di nuovo - come fu nel 1992 - a una "punizione della classe politica" per incapacità o per mancanza di senso morale (lo scenario paventato ieri da Massimo D'Alema in un intervista al Corriere della Sera) non è una soluzione. Quello che allora non intraprendemmo fu la modernizzazione del paese che non significa solo, né prevalentemente, un'altra generazione di classe politica, ma altre scelte strutturali, in economia, in modelli educativi, in apparati dell'istruzione superiore e di base, nei processi di tecnicizzazione.
Al di là di ciò che invece ritiene Ilvo Diamanti (su "Repubblica" di ieri nella sua rubrica "Mappe") è possibile che noi italiani siano felici nonostante la politica, ma è vero che questa condizione nasce da un a condizione di piagnisteo ed è anche la conseguenza di una presa d'atto: la fine del nostro delirio di onnipotenza. Nel 1992 al tempo di Tangentopoli eravamo convinti che fosse sufficiente rimuovere il tappo dei politici perché l'effervescenza della società civile si sprigionasse e le energie così liberate trovassero la loro espressione. 15 anni dopo non è più così. Non siamo stati vittima di un inganno. Per fare le cose, per modernizzare un paese occorrono le competenze, non la retorica. E per modernizzare è delle prime che abbiamo bisogno.
21.05.07 11:38 - sezione
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