Che vuol dire famiglia nell’Italia che produce?
Dopo le amministrative di fine maggio è cambiata l’aria nel Nord. Per comprenderlo e soprattutto per capire che cosa significa il dopo Verona – il vero test su cui misurare il conflitto politico e culturale – occorre distinguere tra le macropolitiche volte allo sviluppo del territorio e le politiche locali volte a difendere e a rappresentare gli interessi locali.
Consideriamo un caso di macropolitica. L’accordo tra Aem e Asm. Fare una buona amministrazione è possibile se si pensa in termini di territorio, di sistema di sviluppo, in altre parole avendo una visione “dall’alto”, che guardi alle mappe complessive dello sviluppo, che superi il senso delle proprie appartenenze primarie. In questo caso non c’è un elettorato da soddisfare, bensì un sistema da costruire che si collochi, né surrettiziamente né passivamente, sulle linee di sviluppo dell’asse europeo Ovest-Est.
Ciò che è accaduto con le amministrative risponde a un diverso principio, né complementare né opposto (dipende dalle scelte concrete che verranno intraprese). In questo caso contano, invece, le appartenenze primarie. Ne consegue che la componente ideologica del conflitto è determinante. Lo scontro non è sulle cose da fare, ma sul senso identitario, e su questo insistono le agende politiche territoriali.
Questo diverso parametro modifica la fisionomia delle competizioni elettorali locali, dove riprendono a contare le appartenenze e non le competenze.
Si chiude un ciclo: quello inaugurato da tangentopoli con l’elezione diretta del sindaco. Più precisamente quel ciclo che ha fatto sì che le scelte di leadership sul territorio - soprattutto quelle relative alla scelta per i sindaci - fosse volto a individuare le figure della competenza e del prestigio. In quella fase valeva il principio della professione contro la politica. In una parola il gergo era quello dell’antipolitica intesa come il mondo del lavoro (un mondo che “sa le cose”) contrapposto a quello dei politici (un mondo che “parla delle cose”).
Questo principio dopo Verona non è più vero. Da un doppio punto di vista.
Il primo aspetto riguarda gli attori sociali. Flavio Tosi ha vinto a Verona insistendo sul tema della famiglia. Ciò che l’ha contrapposto alla curia, evidentemente, non era la difesa della famiglia, ma l’affermazione della famiglia come luogo identitario del fondamento sociale. La famiglia in questo caso non è un valore, è un’unità produttiva che produce beni e la cui identità è nel patrimonio. La famiglia di Tosi è l’Italia che spesso molti si sono dimenticati ma che esiste da molto tempo, un tipo di Italia che non sopporta Visco, ma che non nutre simpatia per le esortazioni all’innovazione di Cordero di Montezemolo.
Il secondo aspetto riguarda che la difesa di questo tipo di famiglia, non come valore etico, bensì come unità produttiva, apre un contenzioso nell’area di riferimento che ha eretto la famiglia a simbolo politico. Qui entra in campo l’azione di Savino Pezzotta. E’ uno scenario ancora incerto, ma che dice che ciò che è avvenuto a Verona ha aperto un nuovo terreno di scontro, ideologico e politico, più che produttivo.
Il tema è la fisionomia dell’Italia che produce: di quali valori sia portatrice; quali tutele chiede e a quali agenzie culturali rivolge questa domanda.
Ciò a cui stiamo assistendo è la ripresa del conflitto ideologico di movimenti, che chiedono spazio, fuori della politica o dentro i partiti o nelle coalizioni, a patto che questi si configurino come contenitori larghi, somma di segmenti politici e non il risultato di adesione individuale. E’ questa la sfida che vale anche per il Partito democratico, il cui problema è oggi domandarsi che e chi rappresenta (quali valori, quali interessi costituiti, quali figure) se al nord non vuole nascere morto.
di
David Bidussa
fonte: il Riformista
12.06.07 09:57 - sezione
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