Dov’è finita la realtà di Israele?

Quello israelo-palestinese forse è l’ultimo grande conflitto ideologico del Novecento. Un confronto che ha appassionato e riempito l’immaginario politico e sociale almeno di due generazioni, sia in Medio Oriente, sia fuori. Un conflitto apparentemente “fermo” e senza novità, consumato in un rancore antico.
In questo senario, arricchito dalle scene che ci sono giunte da Gaza ai primi di giugno, si è inserito Viva Israele, l’ultimo libro di Magdi Allam. Un testo che si è dimostrato difficile da discutere perché accompagnato da molta passione e da molta emozione, comunque suscitando un dibattito caratterizzato da scarsa pacatezza.
Un testo che molti hanno elogiato e molti criticato – p.e. Gad Lerner su “Vanity Fair”, Stefano Jesurum su “Corriere Magazine”, Elena Löwenthal su “La Stampa”, Amos Luzzatto” su “il Riformista” - e intorno a cui si è presentato a difesa il popolo dei blog convinto che quella di Magdi Allam sia l’altra faccia della guerra di civiltà (con relativa diabolizzazione dell’avversario, fra l’altro riproponendo stereotipi anche antisemiti quando si tratta di descrivere la fisiognomica di Gad Lerner).
Un testo, che credo richieda una riflessione attenta. Almeno per tre buoni motivi credo che sia importante discutere di Viva Israele. Precisamente: 1) è un testo che racconta di un’esperienza di vita, delle domande e delle inquietudini di un uomo che è da molti anni una vittima. 2) E’ un testo che narra che cosa significhi, in nome di una propria convinzione, percorrere l’intera strada che porta verso l’isolamento, la solitudine e l’ostracismo del proprio gruppo di riferimento; 3) E’ un testo che esplicita un proprio schieramento dichiarando una scelta di laicità della politica. Forse di tutti e tre questi temi il più intrigante è il terzo. Sicuramente a mio avviso è il più attuale. Ed è anche quello che mi pare sostanzialmente disatteso in questo libro. Di questo aspetto credo che sia bene parlare.
Prima in breve il contenuto. Viva Israele si potrebbe definire l’esposizione di un lungo apprendistato che inizia nelle settimane della crisi del maggio-giugno 1967, al Cairo, nelle settimane in cui Nasser sembrava rappresentare e guidare tutto il mondo arabo e la sua riscossa (oggi sappiamo che in vece proprio in quei giorni iniziava una lenta parabola di sconfitta del panarabismo laico di cui Nasser voleva essere il leader politico e carismatico), e poi sbocca nell’abbandono dell’Egitto nel 1972 – a venti anni – per venire a studiare in Italia. Prosegue con il fascino nei confronti di Arafat nel corso degli anni ’70 e poi il netto distacco nei suoi confronti negli anni ’80, fino a maturare la convinzione che sia Arafat la vera causa di un conflitto che si esaspera anziché risolversi. Arafat, per Magdi Allam, infatti, è l’espressione di un sostanziale falso ideologico e politico: quello della volontà della distruzione di Israele come avamposto dell’Occidente.
Arafat, per Magdi Allam, scopre se stesso nel momento in cui abbandona Camp David nell’estate 2000. Il resto poi è l’effetto di una spirale che testimonia di una sostanziale e lunga fedeltà, sempre trattenuta, che si manifesta con le parole, gli atti, gli slogan della seconda Intifada, quando Arafat sostiene la strategia del martirio come l’essenza della cultura politica dell’Anp.
E’ in questo frangente che Magdi Allam inizia scopertamente la sua battaglia – spesso solitaria – con il mondo islamico, ovvero con il suo mondo (è questo un aspetto che molti spesso dimenticano, ma che occorre sottolineare, soprattutto in un’epoca di appartenenze rigide, dove nessuno o pochissimi riescono ad affrontare a viso aperto il proprio mondo). Una battaglia che contemporaneamente attacca la deriva fondamentalista e radicale dell’islamismo e, al tempo stesso, proclama a voce alta la necessità di difendere il nemico simbolico – ciò che per quel mondo è il satana – ovvero Israele, più generalmente lo stile di vita occidentale.
E’ una battaglia, come sappiamo, che non è senza effetti e che è costata a Magdi Allam moltissimo in termini di tranquillità quotidiana, di qualità del proprio privato. E’ una battaglia che ha un suo fondamento vero, perché è indubbio che Israele ha patito una lunga stagione di scarsa simpatia – per usare un’espressione eufemistica – nell’opinione pubblica occidentale Una opinione che con molta difficoltà ha compreso che sostenere i diritti politici dei palestinesi doveva anche significare assumersi l’onere del diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Un’opinione, peraltro, spesso diffusa a sinistra che non sa andare oltre una difesa dei palestinesi aprioristica e ideologica. Ne è un esempio il modo in cui in queste settimane è stato accolto il nuovo libro di Furio Colombo La fine di Israele (il Saggiatore) che tenta di rovesciare molti luoghi comuni presenti a sinistra nei confronti di Israele. Per ora, dispiace dirlo, senza successo.
Ciò detto tuttavia, ci sono tre aspetti di questo libro che mi lasciano perplesso e perfino mi inquietano.
1) Magdi Allam muove accuse a persone specifiche in questo suo libro. Per esempio nei confronti di Paolo Branca, islamista, docente all’Università Cattolica. Le prove che adduce a mio avviso sono deboli e comunque si tengono su un sistema di rinvii incrociati che così come sono esposti sono quantomeno forzati, per non dire inconsistenti. Gli attacchi personali sono delle motivazioni sostenibili se si hanno prove. In caso contrario è meglio abbandonare quel campo di polemica. O Magdi Allam porta al tavolo del lettore altre prove, oppure capisco l’efficacia dell’esposizione, ma nel complesso mi sembra pretestuosa e anche un po’ artificiosa. Se si fanno accuse, non serve la retorica, servono le prove. E queste sono sostenibili se si hanno almeno due riscontri tra loro non dipendenti. In questo caso le prove sono deboli.
2) Credo che sarebbe buona cosa nel momento in cui si sceglie di stare da una parte del campo di non dimenticare, anzi di sottolineare, quanto complessa, contraddittoria, complicata e conflittuale sia una realtà culturale, sociale e politica. In questo senso noi cercheremo invano una descrizione di che cosa quotidianamente è Israele. Vi troviamo, invece, la costruzione e la definizione di ciò che simbolicamente rappresenta oggi Israele per una cultura politica variegata, che assume il conflitto mediorientale come la raffigurazione di un confronto ultimativo e culturale – e dunque non contrattabile con il mondo islamico. Israele è la sua raffigurazione simbolica, un paese descritto per la sua condizione oggettiva – ovvero assediato. Di fatto, come dice efficacemente un’espressione idiomatica israeliana con “le spalle al mare” obbligato a vincere per sopravvivere
Di questo paese Magdi Allam ci restituisce la sua costruzione mentale (che è il risultato di un percorso emozionale e culturale interessante). Quella costruzione mentale, tuttavia, non è che una realtà parziale. Israele è spesso la vittima di uno sguardo ideologizzato da parte di molti critici, se non nemici. Bene sarebbe non solo opportuno, ma anche utile che chi ha percorso il tragitto inverso assumesse una dimensione in cui l’entusiasmo non dimentica i tratti problematici.
Israele è una realtà fatta di profondi conflitti interni. Considero tre indicatori fra i molti.
a) La centralità di un attore culturale - che alle ultime elezioni del marzo 2006 è diventato il terzo partito in Israele, si tratta di Yisrael Betenu di Avigdor Lieberman - ovvero la popolazione russa, che ha radicalmente trasformato il Paese negli ultimi dieci anni, lo ha persino mandato in crisi sul piano della sua unità linguistica come strumento di costruzione di un’identità nazionale.
b) L’ incremento della renitenza alla leva (un aspetto che in Israele prima ancora che un dato preoccupante indica un percorso di disaffezione inquietante).
c) L’accrescimento dei processi di emigrazione. Un fenomeno che non riguarda significativamente nuovi venuti che non si adattano e dunque dopo un periodo decidono di desistere e “tornano indietro”, ma riguarda I figli, nipoti di quelli che sono nati in Israele, talora persino nella Palestina mandataria britannica e che semplicemente se ne vanno, perché lì non vedono un futuro. Sono tutti aspetti che indicano la crisi profonda di Israele. Ma tutto questo in Viva Israele non c’è.
3) Proprio l’assunzione di Israele come simbolo e contemporaneamente l’accantonamento della realtà sociale e infraconflittuale che l’attraversa determinano l’immagine di una realtà “naturale”. Ma Israele, come tutti gli Stati moderni del resto, non è un dato, è un risultato; è un costrutto culturale, sociale e politico. Assumere quella realtà restringendola al solo piano simbolico, implica, più generalmente, accreditare un’idea della politica di tipo naturalistico. E’ lo stesso fenomeno che caratterizza la lettura della realtà araba e islamica.
Le realtà politiche nazionali sono l’effetto di un percorso cultural, emozionale, politico. Ma non sono l’equivalente né corrispondono a come una collettività racconta le proprie origini o la propria storia. Queste fanno parte della retorica, dell’ideologia, del mito che ognuno racconta di sé. In quel racconto, peraltro, spesso non sta solo la propria storia, ma anche quella degli altri, soprattutto quella dei propri avversari.
Questo processo che è vero per tutte le realtà politiche nazionali moderne, lo è ancor di più nell’età della globalizzazione. In questo scenario la pressione ideologica tende ad essere più articolata e diffusa che non in precedenza. La sensazione è quella della strapotenza, in realtà la dinamica è quella di rispondere colpo su colpo” ai molti canali in cui il nemico arriva a contattare i propri “sudditi”. In altre parole le zone di conflitto politico oggi sono caratterizzate da un innalzamento della propaganda politica e in questa propaganda ciò che è strutturale è la retorica volta a convincere la fondatezza naturale delle ragioni della propria parte. In questo quadro la naturalità è appartiene alla retorica, è un argomento, ma non è un fondamento. E’ per questo che la politica non è mai – e oggi ancor meno – un dato naturale.
Ed è per questo che il meccanismo culturale che propone Magdi Allam mi sembra sia artificioso sia discutibile. Perché al di là dell’allarme che egli lancia, e su cui credo sia opportuno riflettere e che mi trova pure concorde su molti punti, poi resta la possibilità e la rivendicazione di non farsi espropriare della politica. Una condizione che non riguarda solo il Medio Oriente, ma anche noi qui. Una cosa che molti oggi in Italia sembrano considerare superflua, comunque, un costo a cui si può anche rinunciare, e che è conseguenza dello stesso paradigma: ovvero il ritenere che la realtà politica sia un dato naturale.
Un’ultima questione, che può apparire un dettaglio, ma che non credo lo sia. Mi sono chiesto se questa sua radicalità non sia conseguente anche a una condizione di uomo braccato, sempre sotto scorta. Credo che abbia un peso quella condizione. Ma non so quanto sia determinante. Salman Rushdie vive da quasi venti anni la stessa condizione di braccato, ma non mi sembra che sia pervenuto alle stesse convinzioni politiche (si veda per esempio, la raccolta dei suo saggi brevi Superate questa linea Mondadori 2007). Ciò non mi fa propendere per l’uno o, per l’altro. Ma mi induce a riflettere proprio su quella dimensione della politica come costrutto culturale, come atto di soggettività dove non conta solo la convinzione, o il fanatismo, conta anche l’individualità o il profilo culturale degli attori e dei soggetti che parlano e che agiscono.
E’ per tutto questo che trovo Viva Israele contemporaneamente una confessione in pubblico di grande coraggio, ma fondata su un paradigma che non condivido perché esclude la politica, consegna gli uomini e le donne - tutti – “di là dal muro” al nemico che vuole abbattere e allo stesso tempo di qua chiama tutti a un a battaglia che non vede un futuro di coesistenza. Condizione enunciata nel testo del discorso che chiude il volume e che Magdi Allam ha tenuto all’ Università di Tel Aviv il 21 maggio 2006 a proposito di un possibile Stato dei palestinesi in pace e accanto a Israele,.
Affermazione, tuttavia, incomprensibile perché nel,a riflessione di Magdi Allam non si profila uno spazio per la politica che renda raggiungibile questo obiettivo. Con la politica diremmo noi, ovvero non rinunciando mai, anche nella sconfitta, a scardinare e forzare il meccanismo mentale e culturale dell’avversario attraverso un lavorìo che lo logora e che lo obbliga a trovare altre vie e ad abbandonare quella praticata fino a quel momento. Questo significa dotarsi di una politica. C’è lo spazio per la politica nella riflessione di Magdi Allam?
di
David Bidussa
fonte: Reset
22.07.07 00:26 - sezione
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