La mia è stata davvero una vita in motocicletta. Tante persone amano la moto, facendoci cose anche più importanti di quelle che ci ho fatto io. Ma sono certo che pochi l’hanno desiderata, sognata, maneggiata, usata quanto me. La moto ha segnato la mia vita, quasi sempre allegramente. E visto che il tempo passa e la memoria si offusca, ho deciso di scrivere la mia storia d’amore con le due ruote, raccontando quelle che ho avuto, ma anche alcune che non ho avuto, ma ho sognato così tanto che è un po’ come se avessi avuto anche quelle.
NB: alcune foto non riproducono realmente le mie moto, perché non di tutte ho immagini chiare. Di alcune ho cercato in Rete foto coerenti con anno e colore di quelle che ho avuto io.
La mia relazione con la motocicletta comincia quando ho pochi anni, forse cinque o sei. Il mio compianto fratello Romano gira su una MV Agusta 125 Pullman azzurra e con quella – ciuffo al vento e camice del Carlo Cattaneo svolazzante – torna a casa con la prima copia di Rock Around The Clock di Bill Haley, in 78 giri. L’amore per la moto e per il rock and roll diventa una cosa seria in quel momento lì.
Guido per la prima volta un mezzo a due ruote motorizzato a Cuggiono, a casa del cugino, generale Carlo Borghi, cieco di guerra 1915-18, insignito con Medaglia d’Oro e soprattutto nonno di Carlino, a cui (lui, uomo incorruttibile e severo) concedeva tutto, incluso un motorino Bianchi tre marce a pedali, mio unico passatempo in occasione dei noiosissimi pranzi di famiglia. Carlino me lo lascia prendere anche se non ho i 14 anni richiesti per guidarlo e io ci scorrazzo felice per le strade di campagna, girando come un pazzo il comando al manubrio delle marce. Mi piace così tanto che poi riesco pure a digerire il “magnifico” pollo ruspante del pranzo, che a me ragazzino di città fa orrore.
Al compimento dei 14 anni comincio a rompere le palle per passare dalla Graziella al motorino, ma a casa mia si fanno orecchie da mercante. Il mio sogno in realtà è la Gilera 124 (che comunque non avrei potuto guidare fino a 16 anni) del mio amico “grande” Michele Di Spigna, che spesso mi raccoglie su via Procida in direzione del Liceo Beccaria lui, media Colorni io. Ogni tanto me la lascia pure guidare nel viale lì davanti.
Anche Gabriele, fratello di Fiorella Zuliani, la mia prima ragazzina, mi lascia guidare la sua Gilera 98 Country, che però ha un motore fiacchissimo e una corona enorme, quindi non va neanche a spingerla.
Alla soglia dei 15 anni ottengo il motorino. Mi piace il tubone Testi Trail soprattutto perché ce l’ha Franco Fabbri degli Stormy Six (anche lui al Beccaria, ma più grande) e poi il Testi è tra i motorini accettati dalla comunità. Riesco ad avere la versione Trail King, con la forma da moto, comprato usato da Pilo in via San Siro, prezzo 50mila lire. Non sono felice della copertura sottile da 2.75 e del cilindro a raffreddamento forzato, avrei preferito un 3.0 e la testa radiale, ma resta sempre una motocicletta, la libertà. In questa foto che ho trovato è giallo, il mio è arancione coi fregi neri, senza borchie sulla sella. Ricordo con affetto l’inutile doppia corona posteriore, con quella grande mai usata.
Il Guazzoni resterà un sogno non realizzato. Mitico, soprattutto il 50 Matacross con la marmitta a sogliola (credo di derivazione automobilistica, roba da utilitaria), che in abbinamento al disco rotante produce un suono unico e autorevolissimo. Ce l’ha Lucio Granelli e me lo lascia usare spesso, ma io ne vorrei disperatamente uno mio. Ci vado vicino, ma sono cominciati gli anni del ginnasio, dove l’infatuazione per la chitarra, le ragazze e il ’68 producono pagelle inguardabili, quindi mio padre mi avvisa che devo scordarmi la moto. Il Testi Trail King viene venduto ad Alberto Pirelli (figlio di Leopoldo, in classe con me), ma il Guazzoni (in particolare lo strepitoso Special Casa 125 6 marce qui sotto) resta nei sogni e ancora adesso pagherei per farci un giro.
Chiuso da mio padre nel liceo privato di corso Magenta per sottrarmi ai “cattivi maestri comunisti” vivo tra rampolli di buone famiglie (Crespi, Formenti, Pirelli, Ramazzotti, eccetera) altrettanto reclusi, ma dotati di moto da sogno. Appena compiuti 16 anni hanno tutti il 125. Il mio amico Carlo gira con la MV Agusta (nome mitico, come la moto di mio fratello), ma in versione Regolarità Casa che per fortuna a lui non interessa, quindi me la lascia spesso. Ci giro sentendomi un re e la sfoggio tornando al Beccaria dove (a differenza del dannato San Carlo, all’epoca solo maschile) ci sono le ragazze. Oppure dalle Marcelline, che all’inizio sembrano stronze, ma poi sanno come divertirsi e far divertire.
Il compianto Gilberto Crespi e Albertino Pirelli hanno le Gilera Regolarità, rispettivamente Casa e Competizione, ma non me le mollano mai, sono sempre a fare impennate in corso Magenta.
Grazie a un altro amico ricco che fa le gare di motocross a Malpensa – vicino a Sesto Calende dove la mia famiglia ha una casetta in riva al lago – ho modo di usare parecchio la Bultaco Pursang (IMHO una delle moto più belle nella storia del fuoristrada) e visto che non può essere immatricolata (quindi non potrei arrivarci a scuola anche se fosse mia) posso millantarne il possesso con i compagni ricchi grazie a qualche foto scattata mentre la guido. Il nome Bultaco mi ha sempre riempito il cuore, un sogno, ma dovrò aspettare anni per averne una.
Poi nel 1971 arrivano i 18 anni e una motocicletta vera. All’epoca le moto da trial non sono gli oggetti disumani di oggi, sono abbastanza utilizzabili. La Montesa Cota 247 T è una meraviglia rossa, agile, divertente da guidare anche su strada, basta caricare gli ammortizzatori e si fanno perfino le pieghe. Si compra da Perere in Porta Tenaglia, luogo di culto. La porto anche al camp estivo di Ascea nel 1972, spedita fino a Salerno in treno, poi guidata fino a Velia. Nei weekend ci faccio giri magnifici riuscendo a far stare sul sellino striminzito anche le ragazze svedesi. Luci costantemente fulminate a causa delle vibrazioni, di sera sono costretto in mezzo al gruppo, per sfruttare le luci del Corsaro Regolarità di Claudio e della Laverda 750 di Vittorio.
Non faccio il trial vero, ma parecchi salti sì. Da incosciente come siamo a quei tempi senza casco e con le scarpe da ginnastica. Eccomi al Montestella, che prima della bonifica di primi anni 80 è una palestra magnifica di fuoristrada.
Il mio amico Vittorio, studente lavoratore di famiglia modesta, intelligentissimo e determinato ad arrivare, studia di giorno e lavora come un pazzo di notte per potersi comprare la motocicletta dei suoi sogni: Laverda 750 SF. Moto fantastica che ricordo bene perché me la lascia usare. Ci faccio anche un volo su una lastra di ghiaccio sotto il ponte della stazione Garibaldi, mentre vado a prendere la Giovanna per un progetto piacevolissimo, poi mai realizzato. Pochi danni estetici ma costosi, devo fare una colletta di prestiti con gli amici per pagare la riparazione.
Con la maturità (nonostante il voto miserrimo) arriva l’assegno di mio padre, due milioni di lire (che all’epoca erano tanti soldi) assieme al consiglio di metterli in banca per avere una rendita che mi garantirebbe un extra-paghetta. Dopo due ore sono alla concessionaria Kawasaki Orsenigo di Parabiago, dove spendo 1.699.000 lire per comprarmi la prima 900 Z1 arrivata in Italia. Mettici un casco AGV Ago (il più bello dell’epoca) e tutto il regalo della maturità finisce in due ruote. Ma che due ruote: semplicemente quella che per me è e resterà la moto più bella nella storia. Mentre torno a casa mi sento padrone del mondo. Poco importa che la testata abbia un microforo che trafila olio (me la terranno via un mese per sistemarlo) e che il faro salti per eccesso di carica agli alti regimi, obbligando la concessionaria a rimediare con un’impedenza.
La Z1 mi tiene compagnia per un po’ di anni. Come si usa all’epoca acquista presto un rumorosissimo scarico 4 in 1 e perfino il portapacchi. Con la Prima Signora Biraghi ci viaggiamo anche parecchio, fino in fondo all’Italia con un carico di valige un po’ così, legate con gli elastici, nell’epoca pre-borse di alluminio. E una tenda in tela degli anni 40. Verrà venduta a Giuseppe, che di mestiere fa il gorilla all’epoca dei sequestri di persona, temo sia diventata un rottame.
Il fuoristrada resta una passione in background per un po’, ma poi torna prepotente. Finalmente, nella seconda metà degli anni ’70 mi tolgo lo sfizio della Bultaco. Compro una Alpina 350 in un negozio molto in voga al tempo, Eurocross in via Raffaello Sanzio, vincendo il fastidio per l’odioso personaggio che lo gestisce. La motocicletta all’inizio mi fa disperare perché a causa di un posizionamento scorretto dello spillo non ne vuole sapere di andare, sporca le candele, si ingolfa. La ricordo ingolfata in una buca all’Alpe Motta sopra Madesimo, con la pioggia e il fango: mi costa il peggior colpo della strega della mia vita riportarla a casa. Risolto il problema va sempre bene.
A fine anni ’70 mi innamoro a prima vista di quella che sarà una delle mie moto più amate e IMHO anche una delle più belle enduro della storia: la prima BMW GS nella sua versione originale da 800 cc. Una motocicletta non particolarmente brillante, ma comoda, bella, inarrestabile. Con la R80 GS giro parecchio, tante gite a medio raggio. Una delle destinazioni preferite è il Piemonte. Ecco la GS nell’atrio del Regio Castello di Verduno mentre sullo sfondo consulto una carta per studiare l’itinerario.
Dopo pochi anni di GS mi lascio prendere dalla scimmia per la nuova granturismo di casa BMW: la K 100 a quattro cilindri, una motocicletta che all’epoca è – almeno sulla carta – rivoluzionaria: carena super protettiva, tanta potenza, elasticità, freni, confort. Alla consegna lascio con un po’ di tristezza la GS, ma la Kappona sembra un aeroplano tanto è bella. In realtà si rivelerà la moto peggiore della mia storia.
Il giorno dopo averla ritirata comincia a piovere e non smette più, però la voglia di provarla è tale che mi bardo di tuta antipioggia e mi metto in sella in direzione appennini. Scopro che la protezione aerodinamica è veramente efficace, ma si manifestano immediatamente i difetti che BMW non riuscirà mai a sistemare, a cominciare dal serbatoio che si arroventa proprio in zona testicoli e un assurdo ticchettio legato (pare) a una valvola sul condotto della benzina. Il più grave è un inaccettabile buco di carburazione attorno ai 4000 giri che non si riesce a eliminare. Mi cambiano centraline, mi fanno andare infinite volte in concessionaria, macché. Sarà che è una delle primissime prodotte, ma questa motocicletta è veramente disgraziata, tanto che la vendo meno di due anni dopo, smenandoci parecchi soldi. Non avrò altre moto da gran turismo.
Carrello, gancio di traino sulla Golf e motocicletta da trial. Nella prima metà degli anni ’80 sulle montagne lombarde è possibile ancora girare per sentieri e prati con la moto da fuoristrada. Quindi con un gruppo di amici si caricano le moto da trial sul carrello e si va in val d’Intelvi o intorno a Golasecca a girare nei boschi. E’ divertentissimo. Il fatto di non avere alcuna consapevolezza di fare qualcosa di totalmente stupido dal punto di vista ambientale aiuta a godersi la giornata.
Durante i miei lunghi soggiorni negli Stati Uniti uso spesso la motocicletta, anche perché il mio carissimo zio Mario ha investito in una concessionaria Yamaha. Eccomi con uno di quegli assurdi scooteroni tanto di moda nei primi anni ’80. Credo sia un due tempi, va come un missile.
E ancora con una quattro cilindri Yamaha 750 di cui non ricordo il modello esatto, durante un lungo tour in Oregon e Washington.
Per qualche anno resto senza moto, fino alla prima metà degli anni ’90, quando la passionaccia torna prepotente, complice anche le complicazioni famigliari (sei infelice? compra giocattoli!). Per vedere se mi piace ancora prendo una BMW R100 GS usata che sembra nuova, magnifica, affidabile e maneggevolissima.
Poi – la solita scimmia dell’ultimo modello – commetto l’errore di sostituirla con la nuova BMW R1100 GS, molto meno sfiziosa. E in più non posso fare io la manutenzione, perché ha l’iniezione.
La mia ultima BMW è una 1150 GS. Come si vede dagli adesivi su casco e moto, sono gli anni in cui lavoro a Motonline (oggi 2Ruote). Qui sono da qualche parte in Europa, mi scuso per l’abbigliamento raffazzonato, ma è un trasferimento breve tra albergo e ristorante.
Quando vado per ordinare la nuova GS 1200, BMW mi offre un tozzo di pane per la mia 1150, quindi mando a quel paese il venditore, vendo la GS da privato e mi compro una moto che mi intriga da un po’, la Buell, che oltretutto fa uno sconto 18% ai giornalisti. Da endurista scelgo la Ulysses, che è molto bella da vedere (a parte l’insopportabile schienalino integrato, la sella bicolore e il codone davvero brutto), accessoriandola anche con i rozzi portapacchi e le (pessime) borse originali. La moto è davvero poco usabile per viaggiare a causa di infinite idiosincrasie, ma dà gusto.
Quando mi arriva la notizia che Harley Davidson ha deciso di chiudere Buell vendo la Ulysses e compro una delle ultime Lightning prodotte, commettendo l’errore di scegliere quella allungata per dare un po’ di spazio al passeggero. In realtà la Terza Signora Biraghi (aka La Signora Biraghi Definitiva) ci sale forse due volte. Avrei dovuto prendere la versione normale che è molto più bella. Ci faccio 3000 km in tre anni, poi capisco che – per anagrafe e mutate condizioni del traffico e soprattutto della gran parte delle persone che guidano un’auto – la motocicletta non è più cosa per me. La vendo nel 2017 senza troppi rimpianti a un appassionato incredulo delle condizioni da concorso.
Credo proprio che la mia storia a due ruote sia conclusa, mi attizza come un tempo, ci mancherebbe, ma mi fanno troppo paura gli altri. Però mi lascia una tonnellata di ricordi belli: luoghi, eventi, profumi, emozioni, spaventi e persone, che assieme alle mie moto hanno arricchito la mia vita per ben oltre mezzo secolo. Evviva la motocicletta, ora e sempre.