Lo scandalo non è la firma di Belpietro su l’Unità, ma quasi 35 anni di malgestione, compensi stellai e sperperi, alla faccia di lettori, sostenitori e lavoratori de l’Unità. Dalla morte di Enrico Berlinguer il giornale fondato da Antonio Gramsci ha funzionato pressoché a tempo pieno come velina e bancomat della corrente di maggioranza.
Quando un mercenario senza scrupoli come Maurizio Belpietro, uno che trasuda idee fasciste a prescindere, firma una copia – benché fittizia – de l’Unità il lettore storico ci può restare male. Ma a rileggerne gli ultimi 35 anni, appare evidente che la lenta agonia de l’Unità è la logica conseguenza delle scelte di chi avrebbe dovuto tutelare e nutrire un pezzo di storia della cultura di sinistra e invece l’ha trasformato nella vittima di quello che che Michele Serra definì “delitto perfetto”. Belpietro non è un male, ma un sintomo.
L’Unità è stata il primo giornale che ho acquistato fa adolescente (in casa mia si leggeva il Corriere della Sera). L’ho letta e sostenuta anche negli anni “del riflusso”, benché fossi pieno di dubbi, partecipando alla nascita della prima “diretta web” in occasione della Festa nazionale di Bologna del 2003. Ne ho seguito in prima persona la decadenza innescata da scelte miopi, irragionevoli, personalistiche, correntizie, avide, messe in atto da una inetta dirigenza di partito che anche dopo la cessione (grazie al ricatto di tagliare i finanziamenti). Propongo un breve riassunto della storia de l’Unità dedicato gli indignati di oggi, perché capiscano che c’è ben altro per cui indignarsi oltre alla firma di Belpietro.
1992 – Walter Veltroni assume la direzione in piena crisi di identità e vendite innescata dalla trasformazione del PCI in PDS. Lancia prima i gadget allegati, poi il supplemento culturale Unità 2, finalmente le cassette VHS. Le vendite tornano a crescere e Veltroni se ne vanta urbi et orbi, ma l’operazione non è sostenibile economicamente. E’ doping delle vendite e le conseguenze si fanno sentire molto presto.
1997 – la crisi finanziaria impone l’ingresso di editori privati (Alfio Marchini e Giampaolo Angelucci), i quali chiamano alla direzione un loro uomo di fiducia dalla redazione di Repubblica: Mino Fuccillo. Feroce anticraxiano, Fuccillo è inadeguato per idee politiche, carattere e curriculum, tanto che dura solo sette mesi. In mancanza di un progetto editoriale serio le vendite crollano, in compenso si mette in tasca 574 milioni di lire per 193 giorni di lavoro.
1998 – gli succede Paolo Gambescia, vicedirettore del Messaggero, già partner di Costanzo nella fallimentare operazione L’Occhio. Gambescia sostituisce Fuccillo, ma è altrettanto inadeguato, forse anche peggio. Navigazione a vista, prime strizzate d’occhio all’impresa, lettori in fuga. Durerà 13 mesi facendo danno, ma anche lui prenderà una corposa liquidazione.
1999 – i lettori, che non si riconoscono più ne l’Unità. Le vendite scendono sotto le 50mila copie. In un tentativo estremo e raffazzonato di evitare una fine ingloriosa Massimo D’Alema, all’epoca Presidente del Consiglio flash, affida la direzione a un suo luogotenente, Giuseppe Caldarola, che guida il giornale alla sua prima fine ingloriosa, mettendoci del suo per accelerarla (i peana al boss sono una insopportabile costante della prima pagina).
2000 – il 28 luglio l’Unità chiude. In un editoriale-piagnisteo Giuseppe Caldarola ammette una “crisi finanziaria pazzesca”, ma non ne indica i responsabili, cioè le segreterie, che hanno distribuito denaro a pioggia ai ranghi e posti in redazione e tipografia ai portaborse, imponendo linee editoriali favorevoli a questa o quella corrente, ma sempre insensate. Nell’editoriale funereo Giuseppe Caldarola ringrazia la signora che ha portato l’assegno da un milione, ma non me che ne ho versati due (probabilmente serviranno per pagare la sua liquidazione).
2001 – una cordata guidata da Alessandro Dalai (Nuova Iniziativa Editoriale) rileva la testata, mettendo alla direzione Furio Colombo e alla vicedirezione Antonio Padellaro. Colombo chiama a collaborare Marco Travaglio, promettente allievo di Indro Montanelli. La nuova Unità è un buon giornale e trova immediata sintonia con i movimenti popolari di inizio 2000: Palavobis, Girotondi, Piazza San Giovanni, i gruppi di Nanni Moretti, Paul Ginsburg, Micromega. Però non piace alla dirigenza, perché il direttore impone indipendenza e cessa i peana ai leader PDS-DS. Comincia un mobbing feroce, il cui momento più triste è la lettera di Gianni Cuperlo (altro luogotenente di D’Alema) che intima a Furio Colombo di cacciare Travaglio (purtroppo non la trovo, ma Travaglio l’ha citata spesso).
2004 – a dicembre Furio Colombo non ne può più e lascia la direzione. Lo sostituisce Antonio Padellaro, ronzino di razza, ma incapace di tenere alto l’appeal del giornale. L’Unità vivacchia sotto il fuoco amico, attenta a non scontentare nessuno, tra notizie di poco interesse e marchette suddivise equamente tra le correnti.
2007 – nonostante tutta la redazione contro, si apre una lunga trattativa per la cessione della testata agli Angelucci (vicini a D’Alema, editori di Libero e Riformista). La trattativa non va in porto.
2008 – Renato Soru, all’epoca presidente della Regione Sardegna e presidente di Tiscali, acquista la testata. La redazione è favorevole. La direzione è affidata a Concita De Gregorio, redattrice di Repubblica, che riduce le pagine, trasforma il giornale in un tabloid, rinnova il sito, affida la campagna di lancio a Oliviero Toscani (che ha l’idea balzana di mettere in primo piano il sedere di una ragazza). La sua corrente PD di riferimento, soprattutto giovani lib-lab che stanno dando la scalata ap partito, esulta per la sterzata salottiera. In realtà lei non ha idea di come si diriga un giornale e le conseguenze si vedranno presto.
2009 – tutto è talmente figo che un solo anno dopo, a fine 2009, il comitato di redazione dichiara che il futuro del quotidiano è a rischio. Intanto Antonio Padellaro e Marco Travaglio hanno fondato il Fatto Quotidiano che raccoglie eredità e lettori de l’Unità. E’ l’inizio di una nuova agonia, con Soru che cede le quote e il fallimento con insolvenze per 125 milioni di Euro e De Gregorio che riporta le sue cose a Repubblica, non senza qualche grattacapo. Altra riapertura nel 2015 grazie a 107 milioni pubblici (!) e vai e vieni vari, con numeri unici annuali per mantenere in vita la registrazione della testata.
La storia completa del giornale più sovvenzionato e al contempo più spendaccione nella storia dell’editoria italiana (ha incassato dal 1990 una media di 6,3 milioni all’anno, oltre 500 mila euro al mese, 17 mila euro al giorno) è su Wikipedia. Ma vale la pena di leggere anche questo capitolo dal libro “Inciucio” di Marco Travaglio per capire a che livello di avidità e incoscienza sia arrivata la gestione PCI-PDS-DS-PD.
In sintesi: questa direzione one-shot e puramente tecnica di Belpietro è davvero l’ultima delle ragioni per cui lettori, sostenitori e comitato di redazione debbano protestare. Domanda raccolta in Rete, che condivido: ma non sarebbe ora di lasciar riposare in pace questo giornale-zombie, assieme al suo fondatore?